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Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietà
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Crescita, decrescita o creatività?

Il selvaggio disprezza l'arte e
riconosce la natura come sua assoluta sovrana;
il barbaro deride e disonora la natura,
ma, più spregevole del selvaggio, molto spesso
continua ad essere schiavo del suo schiavo.
L'uomo colto si fa amica la natura e ne rispetta la libertà,
semplicemente frenandone l'arbitrio.


Friedrich Schiller

Nell’attuale fase di crisi sistemica finanziaria ed economica, assistiamo ad un pericoloso dibattito in termini di aut aut, tra sostenitori della crescita e sostenitori della decrescita. Entrambe queste correnti pretendono di dare risposte circa il da farsi, senza prima essersi date una corretta risposta in merito a chi sia l’uomo e quale sia dunque la sua più profonda natura. Vittime degli approcci materialisti, guardano all’uomo, i primi, come ad un mero produttore dittatore della natura, i secondi, come ad un parassita usurpatore di un’intoccabile natura. Per i primi la natura è il proprio schiavo, per i secondi la natura è il proprio dio.

Fuori da questo confuso dibattito, ancora una volta, è la voce dell’unico economista e statista che ha saputo puntualmente spiegare e prevedere l’inevitabilità della crisi a cui sarebbe giunto il modello della globalizzazione finanziaria, Lyndon LaRouche. Egli dice: «The issue of creativity is the key!» ; la soluzione per uscire dal disastro in cui siamo piombati passa per la riscoperta del concetto di creatività, come referente ontologico della più profonda natura umana.

È fondamentale allora interrogarsi sul chi siamo e su quale sia la nostra autentica natura.

Nella sua recensione del Gesù di Nazaret di Papa Benedetto XVI, LaRouche dice:

«Dunque, la questione rilevante è, semplicemente: è vero che noi - voi ed io - siamo fatti a immagine e somiglianza del Creatore di questo universo? Come possiamo saperlo? Siamo bestie o siamo fatti a somiglianza dell'uomo e della donna nella Genesi 1:26-30? Dunque, per un cristiano in un'epoca di grande crisi spirituale per il genere umano, come per Benedetto XVI in questa occasione, il significato della divinità di Gesù di Nazaret è una questione pratica ed esistenziale cruciale per tutti gli interessati.
Benedetto XVI ha risposto: Quali prove ci giungono dalla vita di Gesù di Nazaret? Che cosa conosciamo, e come siamo capaci di apprenderlo?
Se lo chiedessero a me, direi che la mia risposta sta, essenzialmente, nella lettera ai Corinzi I: 13. Fede e speranza dipendono essenzialmente dal principio espresso nel Vangelo di S. Giovanni: il concetto socratico di agape. Si tratta di una concezione che non viene colta appieno dal termine “carità”, né dal termine amore. […]
Generalmente associo il significato del termine greco agape alla passione della creatività, nel senso più rigoroso dell'atto di scoperta di un principio fisico universale, come nel caso esemplare della scoperta del principio fisico della gravitazione universale da parte di Giovanni Keplero.
Il potere creativo espresso dall'uomo e dalla donna fatti a immagine del Creatore è il vero potere del processo della creazione continua dell'universo, potere che esprime l'intenzione sia del Creatore che del creato e che riflette il concetto di agape. Cruciale è l'amore creativo condiviso col Creatore, espresso nella devozione della personalità umana alla realizzazione di questa missione. E' l'amore espresso dai contributi allo sviluppo dell'universo che abitiamo, è una qualità di amore che esprime tale potenziale creativo.
E' l'amore espresso da uomini e donne che agiscono al servizio, e ad immagine, del Creatore.»

[Vai all’intera recensione]

Ecco dunque chi siamo. Siamo uomini fatti ad immagine del Creatore, siamo la ripetizione in piccolo di quella “forza intelligente” che tutto conosce e tutto ha creato, ed il fatto di essere a questo somiglianti è dimostrato dalla nostra stessa capacità di conoscere e di creare. Si tratta di un dato distintivo che differenzia l’uomo da ogni altra entità della biosfera; la prova empirica dell’efficienza di questa capacità ontologica è data dal continuo aumento della densità demografica relativa potenziale. Quest’ultima, infatti, non racconterebbe altro che l’aumentata capacità dell’uomo di relazionarsi al Tutto, e dunque di conoscerlo (conoscere e creare).

La vita umana è interessata costantemente da un processo di conoscenza ed azione, a cui l’uomo dimostra di essere incline fin dalla nascita. L’elemento che lo contraddistingue da tutte le altre specie della biosfera, è la sua capacità di conoscere in modo consapevole ed efficiente – tanto da poterli trasmettere agli altri – quei principi fisici universali, quelle idee (nel senso platonico), grazie a cui è in grado di migliorare constantemente le condizioni di vivibalità che interessano la sua specie ed il suo habitat. La visualizzazione delle idee, passa per il consapevole atto di voler conoscere quelle idee; lo sviluppo di un’azione in funzione delle idee visualizzate, passa anch’esso per un atto di volontà, quello di applicare l’idea, la verità conosciuta.

Il processo cognitivo-creativo è allora il dialogo che instauriamo con la verità; esso è quel fenomeno dove l’uomo allo stesso tempo coltiva la sua natura individuale e si riconosce come essere facente parte di una più ampia comunità.

La dimensione politica deve così puntare ad organizzare la società in modo da poter sviluppare in ogni essere umano la sua capacità di ragione cognitivo-creativa.

L’universo e la mente umana sono anti-entropici

I fautori della crescita hanno ragione quando sostengono che il mondo è entrato in crisi a causa di un eccesso di finanziarizzazione dell’economia, con la distrazione dell’impegno economico da produzioni per beni e servizi, a pure operazioni speculative considerabili alla stessa stregua di un grande casinò globale. Si pensi infatti che nel 2005 il prodotto interno lordo globale (esprimente all’ingrosso il valore delle produzioni reali) era pari a circa 45.000 miliardi di dollari, mentre quello delle transazioni finanziarie era pari a circa 2.000.000 di miliardi di dollari (di cui 1.400.000 miliardi relativi a derivati, 570.000 miliardi relativi a valute, e 50.000 miliardi relativi ad azioni). I crescitisti sostengono dunque che si debba dare nuovo spazio alle produzioni. Ma di quali produzioni parlano? Che concezione di uomo vi è dietro? Quale parte dell’uomo? La sua capacità di creare in modo sempre più efficiente o il suo desiderio di godere?

I fautori della decrescita, invece, sostengono che l’attuale sistema di misurazione della crescita – rimesso in particolare alla produzione interna lorda – non esprima efficacemente un miglioramento od un peggioramento delle condizioni di vita. Ed anch’essi hanno ragione. Questi propongono allora un nuovo modello, di “recessione ben temperata” centrato sull’idea di sobrietà, di consumo critico e consapevole; una “nuova” – a loro dire – economia fondata sull’autoproduzione e sullo scambio non mercantile. Si sta progressivamente creando un plotone di persone che aderiscono a questa nuova religione; si tratta di gente proveniente dai più disparati ambienti, da quelli eredi del catto-comunismo, a quelli dei centri sociali, a quelli della destra sociale che non rinnega il suo passato fascista. Si tratta di persone accomunate tutte da un punto: l’aver intuito prima di altri che il modello sinora dominante era un modello insano, fatto di ostentazione, di consumismo, mercificazione dell’altro, sfruttamento dei popoli più deboli; in ogni caso, un modello che li ha delusi; potremmo parlarne come del popolo dei delusi. Quanta ragione vi è nelle loro considerazioni!
Ma ecco adesso la punizione divina, la crisi del modello. E se l’analisi trova molti elementi di ragione, la soluzione proposta – quella della decrescita appunto – rappresenta però una non soluzione, anzi la radicalizzazione dei problemi che oggi affliggono l’umanità.

Dice Karel Vereycken del movimento di LaRouche in Francia:

«Durante le grandi epidemie che colpirono l'Europa nel Medioevo, schiere di credenti turbati passavano di città in città pregando e flagellandosi. Per sfuggire alla peste, che si credeva inviata da Dio per punire l'uomo che aveva vissuto al di sopra delle sue possibilità, vi era un solo rimedio: punirsi da soli, per convincere Dio a sospendere il verdetto.»

La soluzione dei decrescitisti appare come una presa di coscienza circa il fatto che lavorare avendo come proprio fine il consumo, rappresenti un modello figlio dell’inconsapevolezza. Come non poter essere concordi con ciò? Tuttavia essi sono lontani dal proporre una soluzione frutto della consapevolezza. Se il modello oggetto della loro critica è vittima di una lettura antropologica per cui l’uomo è essere sensuale finalizzato a consumare, i decrescitisti propongono una diversa via, dove però la concezione antropologica è la stessa; anche per loro l’uomo sarebbe un essere sensuale, dominato dalla voglia di vedere, di toccare, di ascoltare, di odorare, di assaporare. Nel loro mondo ideale, infatti, l’uomo potrà tornare ad assaporare i sapori di una volta, respirare l’aria di una volta, vedere i paesaggi di una volta. Questo approccio alla realtà (che si ricordi, è per essenza in continuo divenire) è profondamente sbagliato; portato alle sue estreme conseguenze, infatti, il semplice salto tecnologico fatto dall’uomo che passa dalla raccolta dei frutti, alla coltivazione dei campi, all’uso del fuoco, rappresenta un pericoloso cambiamento dell’ambiente, dove l’azione umana finisce con l’essere concepita come un elemento di disturbo di madre terra Gaia.

Ed invece, l’evoluzione che deve compiere l’uomo è di tipo antropologico: non riscoprire la natura (l’ambiente) che fu, quanto riscoprire la sua più profonda natura; da essere sensuale ad essere razionale dedito alla conoscenza ed alla creazione.

La politica può e deve adoperarsi affinché l’ordinamento sia organizzato e finalizzato a coltivare l’autentica natura umana. Questo implica una sempre maggior evoluzione del patrimonio cognitivo e creativo umano, non il suo arresto, la sua decrescita.

Dunque per i crescitisti bisogna fare di più; per i decrescitisti bisogna fare di meno. Con fare di più e fare di meno, entrambe le due correnti fanno riferimento alle quantità prodotte, alla materia fisica prodotta, e non guardano al tempo materiale impiegato per fare, dunque non guardano all’uomo chiamato a questo fare. Se in merito ai fautori della crescita non vi è dubbio che le cose stiano così, in quanto anche in presenza di miglioramenti tecnologici, la persona è comunque chiamata ad aumentare il tempo dedicato alla produzione materiale, qualche perplessità può invece sorgere per i fautori della decrescita; infatti per questi ultimi l’uomo deve limitarsi a produrre quel tanto che gli basta per il sostentamento, dimentichi però del fatto che il modello nostalgico che vanno proponendo è un modello di economia agricola a bassa capacità produttiva, dove la persona si trova gioco forza impegnata tutta la vita nella cura dei campi.

Lungi dall’essere un modello politico o filosofico, di illuminata relazione con sé stessi, gli altri e la natura, la decrescita è di fatto un nuovo modo per rubricare il concetto di austerità; essa è di fatto il processo di “disintegrazione controllata dell’economia globale” , così come fu definita durante gli anni ’70 dall’allora governatore della Federal Reserve, Paul Volcker, oggi messo dal Presidente Barack Obama a capo dell’Economic Recovery Advisory Board.

I sostenitori della crescita, vittime di un neo-keynesismo equivocato con le politiche rooseveltiane a cui John Fitzgerald Kennedy ridette ossigeno, vedono passare il rilancio attraverso una nuova era di cementificazione fine a sé stessa, non inserita in un quadro strategico che deve consentire un salto tecnologico-scientifico che aumenti l’efficienza produttiva pro-capite e per chilometro quadrato. I sostenitori della decrescita, invece, vittime del neo-malthusianesimo che conclude il ragionamento con la tesi per cui si debba almeno dimezzare la popolazione mondiale, propongono di tornare all’economia dell’autoproduzione. Essi disconoscono l’importanza del miglioramento quantitativo e qualitativo della capacità produttiva, perché vedono la crescita demografica come un problema invece che come una risorsa. Di fatto, essi hanno una concezione hobbesiana dell’uomo. «Non è necessario avere quantità sempre maggiori di energia e di protesi chimiche, né intervenire sulla struttura della materia con le biotecnologie e con la fisica atomica» essi dicono. Certo, possiamo limitarci alla raccolta delle bacche, o comunque alla “sobrietà” a cui ci obbligherete! Intimoriti dalla finitezza del pianeta terra, dimenticano di essere parte di un universo anti-entropico e dotati di una mente anti-entropica. Così se l’entropia caratterizza la materia concepita come un qualcosa a sé stante, essa è però sussunta in un processo anti-entropico superiore, quello dell’universo, tendente all’ordine ed al dominio della vita sul resto. In questo processo di anti-entropia universale, spicca la capacità della mente umana, anch’essa anti-entropica, caratterizzata dalla ragione cognitivo-creativa.

Se i fautori della crescita scappano dal passato dimenticandone l’importanza per un futuro migliore, i fautori della decrescita scappano dal futuro sognando un mondo congelato ad una non chiara epoca passata.

E ancora, i primi concepiscono un uomo schiavo del lavoro a bassa specializzazione, per una sempre maggiore quantità di merci, i secondi un uomo schiavo del lavoro a bassa specializzazione, per quel tanto che a lui basta per il sostentamento. L’una e l’altra visione del mondo, non tiene conto della naturale inclinazione umana alla conoscenza ed alla creazione. Si tratta di due visioni sostanzialmente fasciste, nel momento in cui sono funzionali ad incatenare l’uomo ad un quadro che disconosce l’autentica natura umana.

L’attuale stadio dell’organizzazione sociale datasi dagli uomini, ha finito col ripartire in modo sempre più puntuale le competenze umane. Tuttavia si tratta di un’organizzazione della società che nel corso della storia si è sempre manifestata. Anche nel più piccolo villaggio a “dimensione d’uomo”, come suol dirsi, vi era il piccolo produttore di vesti, piuttosto che di libri, piuttosto che l’agricoltore. Non è di fatto possibile un’organizzazione sociale dove ognuno possa occuparsi di tutto. Pensare ad una società di questo genere, sarebbe – contrariamente a quanto pensano i fautori della decrescita – incentivare forme di spreco e di arretratezza culturale, dove l’uomo mancherebbe inevitabilmente del tempo per le attività di tipo intellettuale.

Quali prospettive

Il piano Obama per il rilancio dell’economia statunitense non è perfetto, in quanto non mostra ancora il coraggio necessario per riorganizzare l’intero sistema finanziario mondiale, secondo le linee più volte proposte da LaRouche. Tuttavia quel piano dimostra che passi in avanti si stanno facendo. Il credito messo a disposizione dal governo federale sarà vincolato al miglioramento delle fatiscenti infrastrutture statunitensi, ed alla relativa creazione di posti di lavoro. Se da una parte i decrescitisti, vittime della fallace concezione entropica della realtà, stanno muovendosi per incidere sulle leadership locali, dall’altra il nostro compito deve essere quello di attivarsi affinché il rilancio dell’economia e del lavoro non sia finalizzato a ridare fiato alle oligarchie finanziarie, quanto piuttosto a reindirizzare il pianeta verso il miglioramento delle condizioni di vita, ed allo sviluppo della persona umana. Per fare questo si deve puntare a ridare al lavoro la sua essenziale dignità di fenomeno applicativo delle più alte cognizioni raggiunte, ma senza un sistema di infrastrutture pesanti (sistemi energetici, stradali, ed idrici) e di infrastrutture leggere (istruzione e sanità, legge e giustizia) al più alto livello tecnologico, il lavoro dell’uomo sarà obbligato ad esprimersi in modi non funzionali rispetto al sempre maggior grado di complessità che la crescita demografica comporta. Senza quei passi, quest’ultima, piuttosto che inestimabile risorsa diventa pauroso problema.

Claudio Giudici
Movimento Internazionale per i Diritti Civili – Solidarietà


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