ECONOMIA

Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietà

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  [ Solidarietà, anno XI n. 4, novembre 2003]

Siria, Iran, Egitto rischiano l’irachizzazione

Di fronte al fallimento dell’occupazione dell’Iraq, il partito della guerra rilancia la puntata: incendiare tutto il Medio Oriente, come prescrive il vecchio piano “Clean Break”


Quando l’ambasciatore americano all’ONU John Negroponte ha posto il veto degli Stati Uniti alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza per condannare le operazioni di demolizione dell’esercito israeliano a Gaza, è risultato evidente che i neoconservatori al potere incoraggiano nuove guerre in Medio Oriente, innescate dagli attacchi di Israele contro Siria e Iran.
Subito dopo quel veto, il 15 ottobre, per la prima volta alcuni cittadini americani sono rimasti vittima di un’auto bomba a Gaza, in un attentato che segna una nuova fase più acuta di violenza.
Da quando i bombardieri israeliani hanno attaccato dei presunti campi di addestramento militari palestinesi nei pressi di Damasco, il 5 ottobre, negli USA ed in Israele la retorica di guerra è diventata assordante.
Chiunque crede – neoconservatore o meno – che incursioni in Siria ed in Iran possano contribuire a “stabilizzare” in qualsiasi modo la situazione è clinicamente pazzo. Piuttosto, attacchi contro Damasco e Teheran non possono far altro che provocare un aggravamento della crisi irachena.
Diversamente da quanto afferma la propaganda neo-con, la Siria è impegnata a stabilizzare l’Iraq. Fonti politiche mediorientali hanno spiegato all’EIR che erano state intavolate delle discussioni accettabili tra la Siria ed elementi statunitensi proprio sul tema dell’Iraq. Forze ragionevoli vicine a Bush si rendono infatti conto che la Siria potrebbe ricoprire un ruolo di stabilizzazione. Ma che le incursioni aree israeliane sono state decise proprio per minare queste discussioni. Allo stesso modo, anche l’approvazione frettolosa della legge “Syria Accountability Act” al Congresso USA, che promette rappresaglie, è avvenuta su iniziativa delle forze dei fondamentalisti protestanti collegati ai neoconservatori.
Gli esperti della regione sanno che i legami tra Siria e Iraq sono sia profondi che antichi. Il partito Baath, ufficialmente disciolto in Iraq, in realtà conta ancora quattro milioni di membri ed è in ottimi rapporti con l’omonimo partito fratello in Siria.
Raggruppamenti tribali nei due paesi spesso si sovrappongono o sono identici. Molti esponenti del Consiglio di Governo Iracheno (IGC) erano in Siria prima della guerra. Evidentemente l’influenza siriana è notevole.
In questo contesto s’inserisce anche la visita a Damasco che Abdel Aziz al-Hakim, il nuovo leader del Consiglio supremo della rivoluzione islamica in Iraq (SCIRI), ha tenuto a metà ottobre. Dopo aver incontrato il vice presidente Abdel Halim Khaddam, al-Hakim ha detto che Damasco potrebbe “seguire l’esempio di altri paesi della regione e svolgere un ruolo importante nella ricostruzione dell’Iraq”. Ha detto alla stampa di aver chiesto alle autorità di operare “per rafforzare i rapporti tra il popolo iracheno e quello siriano” e di “sostenere lo sforzo del popolo iracheno per recuperare l’indipendenza, la sovranità e la stabilità”. A Teheran è stato inoltre reso noto che l’Iran darà alla Siria tutta l’assistenza che occorre nel caso in cui l’Accountability Act comporterà delle sanzioni USA contro Damasco. I due governi a questo punto coordinano molto strettamente ogni iniziativa.
Anche a Teheran c’è chi si prepara allo scontro. La scintilla più ovvia è il difficile negoziato con l’International Atomic Energy Agency (IAEA). Il programma nucleare iraniano è diventato oggetto di tanto baccano e rivelazioni infondate, come avvenne con gli arsenali di sterminio di Saddam. Grave preoccupazione sul rischio di replicare in Iran l’infelice “copione iracheno” è stata espressa a metà ottobre dal ministro degli Esteri russo Igor Ivanov.
Qualsiasi iniziativa contro l’Iran avrebbe ripercussioni immediate in Iraq, dove le forze d’occupazione sono state oggetto di rappresaglie sempre più gravi. Attualmente la resistenza irachena è composta soprattutto dai fedeli di Saddam Hussein e dalle forze del Partito Baath a cui si uniscono forze tribali. Fino ad ora le grandi organizzazioni sciite, in particolare la SCIRI e i partiti kurdi del Nord non hanno aderito alla resistenza. Ma nel caso di un attacco contro l’Iran questo cambierebbe subito.
Gli sciiti fino ad ora hanno tollerato la presenza degli USA in cambio di un riconosciuto controllo sulle città sante di Najaf e Kerbala (il cui significato religioso non è compreso negli USA), e di un certo potere. Essi chiedono però che l’occupazione cessi al più presto e che il potere sia restituito agli iracheni. Se le loro richieste non saranno esaudite entreranno a far parte della resistenza. A prendere una decisione del genere saranno i leader religiosi e non quelli politici.
Se gli USA o Israele attaccheranno l’Iran, ad esempio sfruttando il pretesto dell’IAEA, la fazione religiosa più radicale in Iran prenderebbe il sopravvento nei vari settori dello stato.
Ogni sciita, non solo in Iran ma in tutta la regione, considera un dovere mobilitarsi a difesa della nazione dall’aggressore se la mobilitazione è guidata dai leader religiosi. Gli sciiti sono presenti in Libano, Siria, Iraq, Pakistan, ecc. Questo potrebbe essere l’avvio di una guerra irregolare protratta, non solo in Iraq, che è solo il fronte più diretto, ma in tutta la regione.
Il governo riformatore di Teheran ha sostenuto molto esplicitamente questo impegno a difendere la sovranità del paese contro ogni aggressione. Il portavoce del governo Abdollah Ramanzadeh ha dichiarato che in caso di attacco l’Iran ricorrerebbe a tutti i mezzi per difendersi “e noi non scherziamo”, ha aggiunto.

Clean Break
Risaliamo indietro nel tempo di diversi anni. L’8 luglio 1996 uno degli esponenti più in vista dei neoconservatori, Richard Perle, fece arrivare all’allora premier israeliano Benjamin Nethayahu un documento di poche cartelle in cui si illustrava una strategia per smantellare gli Accordi di Oslo, quelli per i quali fu assassinato Yitzhak Rabin.
Di quel documento, intitolato “Clean Break”, Solidarietà ha già riferito nel numero del giugno 2003 (pag. 11). Qui basta ricordare che, parlando di fronte al Congresso USA, Netanyahu allora riprese grossa parte di quel programma nel suo discorso. Inoltre, lui prima e poi Sharon hanno fatto tutto il possibile per metterlo in pratica. Le proposte contenute nel documento stilato sotto la direzione di Richard Perle e David Wurmser sono le seguenti: 1) Distruggere Yasser Arafat e l’Autorità Palestinese, prendendo a pretesto ogni atto terroristico, soprattutto quelli di Hamas, organizzazione cresciuta all’inizio degli anni Ottanta con l’aiuto di Sharon che era allora ministro della Difesa.
2) Indurre gli Stati Uniti a rovesciare il regime di Saddam Hussein in Iraq.
3) Lanciare una guerra contro la Siria, una volta sistemato Saddam, sia colpendo obiettivi siriani in Libano che nel territorio siriano.
4) Rilanciare la scommessa fatta sul rovesciamento dei Baathisti di Bagdad e Damasco in quella della “democratizzazione” dell’intero mondo arabo, con l’appoggio di nuove azioni militari contro l’Iran, l’Arabia Saudita e l’Egitto, quest’ultimo considerato il “pezzo più ambito”. (secondo l’allegato al Clean Break).
Evidentemente il Clean Break resta la tabella di marcia, come dimostra il fatto che a Washington hanno dato il loro beneplacito ai bombardamenti israeliani in Siria. Un altro fatto preoccupante è che il 16 settembre il neo-con John Bolton, negoziatore per il disarmo, ha finalmente ottenuto di deporre alla Sottocommissione Rapporti Internazionali della Camera, sul tema della Siria e del Libano, dopo che la CIA lo aveva ostacolato, arrivando persino a far circolare un documento in cui si smentiscono preventivamente molte affermazioni di Bolton su presunte implicazioni della Siria nel terrorismo e nelle armi di sterminio.
Sarà una coincidenza, ma quello stesso giorno uno dei principali estensori del Clean Break, David Wurmser, si è trasferito dal Dipartimento di Stato all’Ufficio del Vice Presidente Cheney e del suo capo dello staff Lewis Libby.
I segnali provenienti da Washington sono stati dovutamente recepiti da Sharon, che ha lanciato le sue incursioni il 5 ottobre. Solo tre giorni dopo la Casa Bianca ha fatto sapere che non si sarebbe più opposta all’approvazione delle leggi Syrian Accountability Act e Restoration of Lebanese Sovereignty Act, che sono la stessa cosa dell’Iraq Liberation Act approvata nel 1998: il preliminare per arrivare all’aggressione militare.
La differenza è che questa volta Cheney e Sharon non aspetteranno cinque anni. Sharon conta di scatenarsi nel giro di qualche mese.





Burg, una voce autorevole in Israele, invita a tornare alla ragione

Avraham Burg, deputato del Partito laburista israeliano, ex presidente del parlamento tra il 1999 e il 2003, è l’autore di una lettera aperta ai palestinesi che è stata pubblicata il 4 ottobre dall’International Herald Tribune. Burg esordisce affermando che la sua famiglia è vissuta da almeno sette generazioni ad Hebron, in Cisgiordania, ma fu espulsa come conseguenza del conflitto arabo-israeliano del 1948.
“Ho il diritto di tornare nella città da cui fui espulso. È un diritto a cui non rinuncerò mai, ma non ho alcuna intenzione di esercitarlo perché il diritto alla vita dei miei figli e dei figli di Hebron ha la precedenza sul diritto di massacrarci a vicenda sull’altare della nostra terra e del nostro focolare”.
Passa quindi a spiegare che ad ambedue le parti è richiesto un compromesso e conclude: “Il bene per Israele è abbandonare il sogno del Grande Israele, smantellare gli insediamenti, lasciare i territori e vivere in pace a fianco di uno stato palestinese, combattere la corruzione e dirigere tutte le proprie energie all’interno verso la società israeliana.
“E il bene per voi [palestinesi] che cos’è? La stessa cosa. Abbandonare la fantasia di scacciarci da qui e tornare a villaggi che per la maggior parte non esistono più. Combattere la corruzione che vi sta distruggendo dall’interno e dirigere tutti i vostri talenti e risorse verso la costruzione di una società araba esemplare – un modello palestinese che rivoluzionerà il mondo arabo, portare la democrazia musulmana nella regione e trasformare il vostro popolo in un ponte vivente tra Est ed Ovest”.