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Appuntamento con LaRouche:  “Tragedia e speranza”

29 aprile 2008 – Il 7 maggio, in una webcast, Lyndon LaRouche descriverà il conflitto che ha determinato la vita politica degli ultimi 140 anni e che sta giungendo ad una fase risolutrice nell’attuale campagna presidenziale degli Stati Uniti. Questo conflitto è la continuazione dello scontro esploso nella Guerra Civile americana, tra i repubblicani nella tradizione di Lincoln e l’Impero britannico. Per impedire la tragedia di una vittoria britannica, dei programmi di globalizzazione e delle guerre perpetue, occorre eleggere un presidente che ripristini la tradizione di Franklin D. Roosevelt e si impegni a collaborare con Russia, Cina e India per impostare le basi di una ripresa economica mondiale.

Mercoledì 7 maggio alle ore 19 sul sito www.larouchepac.com. La traduzione simultanea in italiano è disponibile alla stessa ora su questo sito www.movisol.org.

 

Rapporto di LaRouche sulle presidenziali 2008

Il 20 aprile, due giorni prima delle primarie in Pennsylvania, Lyndon LaRouche ha pubblicato un documento politico in cui tratta i temi centrali che il futuro presidente degli Stati Uniti si troverà ad affrontare.

LaRouche si presenta come ex candidato presidenziale ed economista con una chiara fama guadagnata con le sue previsioni a lungo termine.

All’inizio del documento l’autore fa riferimento al conflitto fondamentale, che si protrae dal 1763, e più ancora dal 1876, “della repubblica degli Stati Uniti contro l’impero britannico, una potenza usuraia neo-veneziana, un impero noto come sistema liberista anglo-olandese”. Non è un astratto conflitto storico ma un fenomeno che permea le questioni essenziali del processo elettorale.

La fazione imperiale è oggi rappresentata dalla globalizzazione, da “atrocità malthusiane moderne come l’Organizzazione per il Commercio Mondiale” e dalle misure promosse da Al Gore e da Dick Cheney.

Colui che entrerà alla Casa Bianca come prossimo presidente, sostiene LaRouche, dovrà, insieme al nuovo Congresso, formare un governo che attraversi gli schieramenti partitici. “Democratici mentalmente sani ed onesti non dovrebbero tollerare di stare insieme ad un truffatore controllato da Londra come l’ex vice presidente Al Gore, e i repubblicani onesti non vogliono avere nulla a che fare con l’eredità del regime Bush-Cheney, creato da George Shultz e collegato a Tony Blair”.

Si spera quindi che il prossimo presidente ritorni alla tradizione rooseveltiana, scrive LaRouche, e che la nazione torni ai principi ripudiati da tanti sessantottini: i principi del progresso scientifico e della cultura classica su cui fu fondato il paese e senza i quali non vi sono possibilità di sopravvivenza per gli USA ed il resto del mondo.

“Mentre la figura del presidente è cruciale per affrontare le grandi crisi della nazione, il vero potenziale è rappresentato dalla sua squadra, che si spera operi in coordinazione con la dirigenza del Congresso”.

“Quindi, mentre considero i candidati individualmente, lo faccio in funzione della presidenza, non del singolo presidente”.

La candidatura di Barack Obama è stata ampiamente finanziata da ambienti di stampo fabiano controllati da Londra ed è pilotata “per eliminare la candidatura di Hillary Clinton, dopodiché il sen. Obama verrebbe scaricato, usando gli scandali che ribollono ... La demoralizzazione in cui piomberebbero i sostenitori di Obama aprirebbe, insieme all’eliminazione della Clinton, la strada ad una probabile manovra di fascistizzazione degli USA ordita da Londra”. Per questo si scaldano ai bordi del campo personaggi indesiderabili del calibro di Bloomberg e Al Gore.

Sul conto di McCain LaRouche nota che il personaggio lascia proprio a desiderare. In particolare ne ha deprecato i “folli impulsi da macho”, sperando che questi possano essere messi sotto controllo da professionisti militari di prima scelta capaci di vanificare le iniziative britanniche che stanno cercando di condurre il paese in una guerra generalizzata e irregolare contro Russia, Cina, India, ecc.

Il documento completo è disponibile sul sito www.larouchepub.com

Pennsylvania: importante vittoria di Hillary

L’avevano data per spacciata e i big del partito le facevano cenno di farsi da parte. Hillary Clinton ha tenuto duro, il 22 aprile si è aggiudicata la Pennsylvania con un margine di 9 punti  ed è decisa a continuare a battersi fino alla Convention di agosto.

A conti fatti, Obama ha speso in Pennsylvania tre volte più di Hillary, ha riscosso l’89% del voto dei neri e il 61% dei voti dei ricchi (elettori con reddito superiore ai 150 mila dollari) e degli elettori al di sotto dei trent’anni. Nella volata finale la Clinton è riuscita a recuperare sostegni tra i giovani.

Hillary si è concentrata soprattutto sulla popolazione colpita dalla crisi e dalla povertà che diventa sempre più invadente, l’80% dell’elettorato che non può farsi illusioni sul futuro. Si stima che Obama abbia speso sei volte più della Clinton per guadagnare consensi tra i colletti blu, ma ha fatto un buco nell’acqua. In questi strati la Clinton ha riscosso un margine del 30%.

Hillary ha ottenuto anche il 72% del voto cattolico. A Scranton, città del sen. Bob Casey schieratosi con Obama, la Clinton ha raccolto il 75% dei consensi. Tra gli indecisi fino alla fine la Clinton ha riscosso il 68% dei voti. Per questi elettori è stato decisivo il confronto dei due candidati alla televisione, dove Hillary ha battuto sul tasto dell’economia. Obama ha deciso di cancellare il dibattito in programma nel North Carolina.

Prima del voto Nancy Pelosi, speaker del Congresso, e Howard Dean, presidente del partito, andavano dicendo che i democratici erano stanchi dei battibecchi e volevano un candidato subito. In realtà l’affluenza alle urne in Pennsylvania è stata altissima e agli exit polls il 98% di coloro che hanno votato per Hillary hanno dichiarato di averlo fatto lei è l’unica a parlare dei problemi economici, e soprattutto della questione della sanità. Hanno chiesto a Bill Clinton come mai nemmeno dopo la vittoria della Pennsylvania la Pelosi, Dean e Reid cessano di chiedere ad Hillary di gettare la spugna, e l’ex presidente ha risposto ridacchiando: “Va bene, debbo lasciarmi andare al candore. Se vengono a dirti che devi mollare è perché fai paura. E se ti dicono che non riesci a vincere è perché hanno paura che ci riesci”.

 

I soldi di Obama e Soros non sono bastati a deragliare la Clinton

Nonostante il notevole vantaggio costituito dai fondi disponibili e dal sostegno dell’establishment democratico, che si é schierato dalla sua parte, Obama non riesce a convincere i più ampi strati dell’elettorato democratico. Con l’eccezione del suo stato, l’Illinois, ha perso in tutti i grandi stati. I democratici sanno che per arrivare alla Casa Bianca bisogna assicurarsi New York, New Jersey, California, Ohio, Massachusetts, Pennsylvania, Florida e Texas. Dopo la vittoria in Wisconsin, il 22 febbraio, Obama ha raccolto solo sconfitte.

Intanto però il megaspeculatore George Soros (sì, quello che affondò la lira nel 1992) alla testa di una cordata di miliardari sta pompando dollari, a centinaia di migliaia, nel campo democratico per imbrigliare il partito e metterlo al servizio della strategia britannica. Dopo la sconfitta democratica nelle presidenziali del 2004, Soros e gente della stessa risma decisero, a seguito di una serie di consultazioni, di dare vita alla Democratic Alliance, un’entità concepita per acquistare in pratica il partito. Registrato come ente a scopo di lucro, l’Alliance ha il diritto di tener segreti sia i suoi “soci”, circa un centinaio, sia la lista delle organizzazioni che finanzia.

Manovre evidentemente disperate di questo tipo da parte di Londra e Wall Street non sono però bastate a diffondere la demoralizzazione tra le file dei clintoniani. Anzi, la decisione di licenziare Mark Penn dal vertice dell’organizzazione elettorale ha avuto un effetto rimoralizzante, riflesso nella raccolta fondi nelle settimane precedenti e seguenti il voto della Pennsylvania, di cui ha riferito Paul Begala, consulente democratico e sondaggista alla CNN-TV.

 

Barack Obama e le influenze anti-rooseveltiane

Dopo la sconfitta di Barack Obama alle primarie democratiche della Pennsylvania, la National Public Radio ha intervistato David Axelrod. Lo stratega elettorale di Obama ha asserito che “I repubblicani si sono aggiudicati la classe lavoratrice bianca in molte elezioni, persino all’epoca di Clinton. Non è una novità che i candidati democratici non fanno affidamento su quei voti soltanto”. In altre parole: di chi lavora ce se ne può comodamente infischiare. Ma è proprio questo distacco dalle classi lavoratrici da parte democratica che storicamente ha fatto la fortuna dei repubblicani, a cominciare dal famoso fenomeno dei “Reagan Democrats”, i lavoratori che votarono per Reagan perché disgustati dagli anni della “disintegrazione controllata dell’economia” sotto la precedente amministrazione democratica.

Bill Clinton, ha riferito la ABC, avrebbe commentato l’esternazione di Axelrod così: “Ha detto, beh, non abbiamo veramente bisogno delle classi lavoratrici per vincere, la metà delle volte votano comunque repubblicano. Ma fatemelo dire, l’America ha bisogno di voi per vincere e per questo Hillary ha bisogno del vostro sostegno”.

Formatosi all’Università di Chicago, Axelrod prese parte al movimento della “riforma politica” di  quell’università sponsorizzata dal mondo finanziario. Fu notato da Don Rose, colui che decideva le carriere giornalistiche, che lo piazzò al quotidiano Chicago Tribune: “Era il primo reporter politico al Trib ad essere associato davvero al movimento per le riforme liberali, Simpatizzava con il movimento ... e sviluppò molti contatti. Uno dei motivi del suo posto al sole è che faceva amicizia con gente che era in ascesa...” dirà più tardi Don Rose al Chicago Magazine.

Axelrod è sempre stato uno degli elementi portanti di questa politica delle “riforme” — sostanzialmente privatizzazioni, tagli al bilancio ecc. — che ambienti oligarchici hanno promosso all’Università di Chicago. Nel 1986 Axelrod era il manager elettorale di Adlai Stevenson III, candidato a governatore dell’Illinois. Egli convinse Stevenson a rinunciare alla candidatura quando due democratici di LaRouche, Mark Fairchild e Janice Hart, riuscirono ad aggiudicarsi il secondo e terzo posto nelle primarie democratiche dello stato. In pratica costrinse Stevenson a mollare i democratici e a candidarsi come indipendente, perdendo le elezioni, compresa la prospettiva di diventare successivamente presidente, che non era affatto remota.

Sul New York Times del 25 aprile l’opinionista Paul Krugman si è chiesto: “Che cosa significa la retorica crescente di Mr. Obama ... per le famiglie che si trovano ad affrontare salari insufficienti, insicurezza del posto di lavoro e paura di perdere l’assicurazione sanitaria? La risposta giusta dall’Ohio e dalla Pennsylvania sembra piuttosto chiara: non molto”.


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