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Reykjavik sceglie la soluzione di Roosevelt, Londra quella di Mussolini

15 ottobre 2008 (MoviSol) – La crisi bancaria in Islanda, lungi dall'essere "locale", fa parte del crollo del sistema finanziario internazionale centrato nella City di Londra. Negli ultimi anni, l'Islanda è diventata un centro di "carry trade" ad opera delle banche britanniche. Massicci flussi di capitale sono stati riversati in questa piccola nazione di poco più di 300 mila abitanti, per avvantaggiarsi del differenziale dei tassi tra lo yen giapponese e la krun islandese. I fondi presi a prestito in Giappone venivano usati per acquistare bond islandesi. L'intero paese è stato trasformato in un hedge fund, e le banche islandesi sono state inondate di denaro che hanno investito in titoli per un valore superiore a dieci volte il PIL nazionale. Quando si è invertito il flusso del carry trade, quel fatturato è divenuto un immenso debito. Il crollo della bolla dei derivati ha innescato una dinamica inversa della leva finanziaria e ha determinato il collasso.

Per impedire la bancarotta, le autorità islandesi hanno ordinato a tutte e tre le banche del paese, Kaupthing, Landsbank e Glitner, di chiedere il rientro dei prestiti e delle posizioni ad alta leva, particolarmente in Gran Bretagna. Centinaia di enti e di privati cittadini britannici hanno depositi nelle banche islandesi. Il governo britannico ha reagito confiscando le filiali delle tre banche, e per poter fare ciò, visto che non c'era formalmente insolvenza finanziaria, ha applicato le leggi antiterroristiche. Ciò ha costretto il governo islandese a commissariare le banche.

Le tensioni tra Islanda e Gran Bretagna hanno raggiunto livelli pre-bellici. Ma, se paragoniamo le azioni intraprese da Reykjavik a quelle intraprese da Londra, non c'è dubbio che le decisioni del governo islandese sono più orientate verso il bene comune di quelle britanniche. Il governo islandese sta applicando metodi di riorganizzazione finanziaria per proteggere la sua economia e, in principio, segue l'approccio di Franklin Roosevelt nel 1933; il governo britannico sta applicando i metodi di Mussolini nel 1933.

Nel 1933, il governo di Mussolini varò l'IRI, l'Istituto per la Ricostruzione Industriale, secondo un piano congegnato da Alberto Beneduce, eminenza grigia della finanza italiana e protetto di Volpi di Misurata. Il piano consisteva nel salvataggio della banca centrale, che aveva un'esposizione di 8 miliardi di lire nei confronti di tre grandi banche, la Banca Commerciale, il Banco di Roma e il Credito Italiano, quando il totale della base monetaria era 13,5 miliardi. Le banche erano diventate proprietarie di grandi industrie, e il fallimento delle industrie o delle banche avrebbe significato la bancarotta della Banca d'Italia. L'IRI acquisì collaterale (azioni) per 8 miliardi e elargì un credito di 12 miliardi al 4% di interesse e a scadenza ventennale. Facendo così, l'IRI e lo stato italiano si accollarono l'intero debito delle banche.


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