Mappa del sito

Newsletter

Il CD di Solidarietà

© Copyright

Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietà
MoviSol.org
Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietà

   

Gli attori e il dramma

di Lyndon H. LaRouche, Jr.

1 settembre 2010 (MoviSol) – Lo scritto seguente è da intendersi come conferma e approfondimento di alcune affermazioni riguardanti i veri princìpi del teatro classico, affermazioni che all'inizio di questa settimana l'economista e leader politico americano Lyndon LaRouche ha espresso durante una conversazione telefonica tra diversi collaboratori sulle due sponte dell'Atlantico.

L'unità e interezza di una composizione teatrale classica, come le tragedie di Shakespeare o di Friedrich Schiller, sono da concepire, comporre e recitare come l'espressione sussunta del principio della metafora, come indica William Empson nei suoi scritti sul tema dei "Sette tipi di ambiguità". L'ironia può essere espressa nei termini di tre livelli di consapevolezza della questione in esame. Il primo livello è quello dell'autore e del regista. Il secondo è quello della consapevolezza nell'attore del punto di vista ironico che si vuole trasmettere, tramite gli attori in scena, alla consapevolezza del pubblico – in breve, la metafora in cui consiste la realtà di qualunque tragedia classica seriamente composta! Il terzo livello è nel ruolo che l'attore deve interpretare sul palco, interagendo con il pubblico.

Consideriamo l'esempio della trilogia del Wallenstein di Schiller, tenendo a mente anche le tragedie di Eschilo, che è il più appropriato autore tra i tragediografi che possa essere messo in scena, dietro alle maschere. Il pubblico, per esempio, non deve mai vedere l'attore; è piuttosto il ruolo dell'attore che il pubblico deve percepire.

Dietro e sotto a ciascuna delle precedenti considerazioni, non vi sono eroi tra i personaggi principali che vengono interpretati sul palcoscenico, se la tragedia autentica viene rappresentata autenticamente. Come specificò Schiller, l'eroe o l'eroina, qualora esista, deve essere trovata in mezzo al pubblico, e non tra i personaggi messi in scena. In tutto ciò, il Wallenstein e la Giovanna d'Arco di Schiller costituiscono, eccezion fatta per una licenza presa dal poeta nel caso di Giovanna d'Arco, gli esempi più impegnativi del tipo di tragedia appena specificato.

Dietro a questi accorgimenti, v'è un sottinteso principio effettivo, che sarà palesato alla fine di questo scritto. Tuttavia parlerò immediatamente del principio generale che deve essere espresso dalla composizione e dalla rappresentazione di un dramma veramente classico.

Negli articoli più importanti e incisivi da me pubblicati negli ultimi dodici mesi e in pezzi meno recenti dedicati al tema qui discusso, ho sottolineato l'importanza del principio per cui l'identità della personalità umana non è situata nel regno dell'esperienza sensoriale in quanto tale e la nostre percezioni sensoriali non sono che ombre imperfette della realtà, e non la realtà stessa di quella personalità individuale.

L'esperienza nello spazio extraterrestre

Recentemente ho scelto di illustrare questo punto, sia in alcune discussioni con i miei collaboratori dello "scantinato" sia in alcuni scritti pubblicati, partendo dal caso ipotetico, ma non irreale, del comandante di un navicella spaziale che non abbia alcun contatto percettivo diretto con la situazione esterna al suo mezzo, ma formuli i giudizi inerenti il suo compito affidandosi ad un insieme di strumenti, ciascuno dei quali ha una funzione come quella esercitata da un tipo diverso di percezione sensoriale.

Potreste chiedervi perché abbia scelto di usare un caso così specifico. La risposta è a portata di mano. Non esiste lo spazio vuoto; al suo posto, piuttosto, esiste una massa altamente complessa di radiazioni cosmiche fisicamente efficienti. Lo "spazio" potrebbe sembrare più o meno "vuoto", poiché il pilota non è dotato di organi di senso che gli permettano di percepire che non esiste un "spazio vuoto". Così, la realtà della situazione del pilota richiede che egli rinunci all'illusione che corrisponderebbe al senso del suo sperimentare con i propri sensi, ma che non esiste: lo "spazio vuoto".

Così, dobbiamo guardare al fatto che la funzione della vera mente umana non è esaurita dalle percezioni sensoriali. Le percezioni sensoriali sono le ombre che "dall'esterno" si proiettano sulla vera mente umana, come indica il caso del pilota nello spazio. Quindi tutte le esperienze sensoriali della realtà fisica non sono reali in sé, ma solo in quanto ombre di "ciò che c'è là fuori".

Dobbiamo quindi riconoscere quali aspetti dalle impressioni dei sensi siano reali e, pertanto, ciò che non è l'altra persona. Sul palco o altrove, quindi, la verità è spesso nascosta dietro alle semplici ombre che possiamo immaginare siano state proiettate da qualcosa che reale non è. Per rimuovere alcune delle dubbiose difficoltà che questa affermazione implica dobbiamo fare affidamento allo sviluppo di quelle facoltà di intuito che ci appartengono e ci permettono di distinguere la realtà dalle ombre, proprio con i metodi che possiamo identificare nelle ipotesi platoniche, oppure che si poggiano sulla nozione delle ipotesi associata alle scoperte del tipo che Einstein riconobbe nell’opera di Keplero, la scoperta del principio della gravitazione universale.

Laplace, che avrebbe dovuto conoscere in dettaglio l'opera di Keplero, non fu mai capace di scoprire il vero principio della gravitazione; tuttavia, le ragioni del suo fallimento devono essere nettamente situate nella sua adesione ai princìpi fallimentari del liberalismo alla Fra' Paolo Sarpi, una forma di incompetenza adottata, da lui condivisa con il suo complice Augustin Cauchy.

Wallenstein

Uno specialista dalla mente ottusa soffrì nella convinzione che il "principio della tragedia" della trilogia di Wallenstein fosse da individuare nella violazione da parte del condottiero del suo giuramento davanti all'imperatore. Alcuni creduloni a me noti, seguendo l'argomento dello specialista si bevvero completamente quella visione insensata della faccenda.

Quale fu il vero principio espresso da Schiller nella sua visione veramente scientifica della storia, a partire dal tema della trilogia di Wallenstein? Lavorando sui retroscena, come normalmente si deve fare in questi casi, occorre ricordare che la Guerra dei Trent'Anni fu la continuazione della manipolazione imperiale dei conflitti religiosi che dominarono la storia dal 1492 al 1648. Tale tendenza fu segnata dal relativo collasso del dominio asburgico sugli affari europei e dal fallimento del Concilio di Trento, che aprì la strada all'egemonia del dogma sarpiano, il cui dogmatico liberalismo filosofico avrebbe determinato uno spostamento e un assestamento dei centri di potere in Europa, dal Mediterraneo alle regioni atlantiche dominate dal sistema anglo-olandese, il sistema propriamente sarpiano. I Trent'Anni dal 1618 al 1648 videro la temporanea ascesa della potenza francese, ma anche il suo fallimento per via delle orchestrazioni di quella espressione di potere veneziano che, dietro le quinte, si era andata consolidando nell'alleanza anglo-olandese. Questo potere anglo-olandese di ispirazione filosofica sarpiana ebbe la sua fondazione esplicita nel trionfale – per il Regno Unito di Lord Shelburne – trattato di pace di Parigi del 1763, con cui si concluse la "Guerra dei Sette Anni".

Ora, consideriamo gli intensivi studi strategici della guerra in Olanda, portati avanti da Friedrich Schiller. Consideriamo gli strascichi della Guerra dei Trent'Anni dopo la morte di Wallenstein. Leggiamo la trilogia, dall'inizio alla fine, tenendo sullo sfondo proprio questi elementi storici.

Che cosa accadde, precisamente? O, per meglio dire, che cosa accadde da un punto di vista strategico?

Chiediamoci quale sia la differenza tra le opinioni e le passioni dei partecipanti a quel pezzo di storia vera della Guerra dei Trent'Anni, che circondarono il ruolo di un Wallenstein vivente? Che cosa accade, tanto da trasformare il corso della storia europea nel periodo che è concesso osservare agli spettatori della trilogia, in forma di esperienza non soltanto dell'intervallo 1492-1648 della storia d'Europa, ma fino alla morte della Regina Anna? Che cosa è noto di quella storia e dei suoi sviluppi, in tutta la storia europea e americana fino al tempo della morte di Schiller? Che cosa accadde, a conoscenza dello Schiller autore e storico, durante quel pezzo di storia? Che cosa va dicendo al pubblico del tempo della sua vita adulta, con la composizione e la messa in scena della sua trilogia?

Attraverso quali occhi e quali orecchie, e a quale distanza nell'esperienza spazio-temporale si manifesta l'esperienza del periodo 1492-1648 al pubblico contemporaneo di Schiller? La conoscenza storica del pubblico è la conoscenza di ciò che accadde durante ciò che viene narrato sul palcoscenico, e anche in seguito? Dovremmo forse guardare ciò che, secondo la moda radicalmente esistenzialista, viene considerato soltanto come un evento immediato, in modo da negarne implicitamente qualunque esistenza efficiente nella storia, come forza influente anche sul nostro presente? Dovremmo forse presumere che soltanto il nostro presente esista, come qualcosa più o meno indipendente da uno degli effetti più traumatici della storia passata? Dovremmo forse presumere che la società non abbia il diritto morale di utilizzare l'esperienza passata come indicazione rilevante per il futuro incombente?

Come possiamo, quindi, esprimere sul palcoscenico tali verità efficienti?

Sottolineiamo quindi il fatto che i "sette tipi di ambiguità" sono il soggetto dell'ironia storica rispetto al passato, presente e futuro tutti insieme. La più cruciale di tali ambiguità è quella della metafora, la contrapposizione di un insieme di stati dell'essere, contraddittori sì, ma coincidenti, la coincidenza che può esprimere il passato, il presente e il futuro di un processo all'interno di una singola esperienza di pensiero.

La funzione del vero dramma classico è quella di presentare in una singola concezione del pensiero quella contrapposizione ironica in modo molteplice degli stati contrastanti dall'essere e dei punti di riferimento combinati.

L'attore deve conoscere la sua parte e la collocazione dei personaggi in scena, rispetto al passato, al presente e al futuro, tutti in un colpo solo. Sono l'effetto di tale prescienza e del suo risultato prospettico che devono essere espressi nell'interazione dei personaggi, agenti in una sorta di dominio unificato. È la tensione, come definita sia per gli attori sia per il loro pubblico, che dà la misura del successo di una composizione teatrale e della sua messa in scena. In altre parole, il testo teatrale deve arricchire gli animi di entrambi!


[inizio pagina]