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[Solidarietà, anno X n. 2, luglio 2002]


La sicurezza intrinseca dei reattori ad alta temperatura HTR

Il Sud Africa ha rilanciato una tecnologia già collaudata, soprattutto in Germania. I nuovi reattori non sono solo sicuri, ma versatili, modulari e poco costosi, ideali per i paesi in via di sviluppo, ma anche per le particolari esigenze dell'Italia

 

I reattori di fissione nucleare ad alta temperatura (HTR, High Temperature Reactor) e la loro versione raffreddata a gas (HTGR) rappresentano l’alternativa migliore già disponibile ai reattori ad acqua leggera (LWR) e ad acqua pesante (HWR) che oggi sono comunemente in uso negli impianti di produzione elettronucleare un po’ in tutto il mondo. Gli impianti dimostrativi più noti dell’HTR sono quello di Dragon in Inghilterra, di Peach Bottom e di Ft. St. Vrain negli Stati Uniti e quello di Jülich in Germania.

Nel prototipo AVR di Jülich è stata sperimentata con successo la tecnica del prof. Rudolf Schulten, denominata “pebble-bed”, letteralmente un letto di ciottoli, per via della somiglianza delle sfere del combustibile su cui scorre il fluido refrigerante al letto di un torrente. Tra il 1967 ed il 1988 questo reattore ha funzionato senza problemi con temperature in uscita tra i 900° ed i 950° gradi (i normali reattori LWR operano ad una temperatura in uscita a 280°-330°). Il reattore di Jülich ha consentito di dimostrare che è possibile avere una centrale “intrinsecamente sicura”, come si vedrà meglio oltre, mentre al tempo stesso apre la prospettiva di impiego dell’HTR come fonte diretta di energia per tutta una serie di processi industriali: gas di sintesi, gassificazione del carbone, produzione di carburanti sintetici (soprattutto idrogeno), raffinazione di prodotti petrolchimici, produzione di ammoniaca, dissalazione dell’acqua, ecc.

In Germania un reattore HTR di 500 MW di potenza è stato in funzione per diversi anni, nella metà degli anni Ottanta, ma è stato poi chiuso per motivi essenzialmente politici. Ciò nonostante, il lavoro di ricerca è proseguito in Germania come pure negli Stati Uniti, a San Diego, negli impianti della General Atomics Company.

Sebbene i risultati ottenuti dall’HTR a Jülich siano decisamente incoraggianti, questa tecnologia non è ancora riuscita ad affermarsi nella produzione commerciale di energia, e il motivo non è solo l’ostilità della lobby ambientalista. Mentre alcune difficoltà di ordine tecnico che si presentavano in passato sono state per lo più superate, l’HTR ha anche incontrato non poca opposizione in certi settori dell’industria nucleare, in quanto presenta soluzioni del tutto diverse e radicalmente innovative rispetto alle tecnologie consolidate, soprattutto la LWR. Nuove prospettive si sono aperte per l’HTR alla fine degli anni Novanta, grazie a nuovi progetti varati in diversi paesi:

(1) In Cina è stato realizzato un modulo sperimentale HTR di 10 megawatt termici che impiega la tecnica del “pebble-bed”. Il reattore, realizzato presso l’Istituto di Tecnica dell’energia nucleare dell’Università di Qinghua, è in funzione dalla fine del 2000.

(2) In Giappone è in funzione da qualche anno un reattore di 30MW. realizzato dall’Istituto di ricerca nipponico per l’energia nucleare presso i propri impianti di Oari. Al posto delle sfere, questo reattore utilizza combustibile racchiuso in blocchi a forma di prisma, ed è impiegato tra l’altro per studiare l’utilizzo del calore generato direttamente nei processi industriali.

(3) Un programma congiunto americano, francese, giapponese e russo, con la partecipazione, rispettivamente, di General Atomics, Framatome, Fuji e Minatom, prevede la progettazione di un impianto modulare da 600 MW capace di bruciare il plutonio delle armi ricavandone energia a basso costo.

(4) in Sud Africa la compagnia Eskom ha lanciato un ambizioso programma che promette a breve termine di fare della tecnologia HTR una risorsa commercialmente valida e molto più accessibile di quella tradizionale.

 

Il progetto sudafricano

La strategia della Eskom punta ad impiegare dei reattori di piccole dimensioni, 110 MW, che presentano numerosi vantaggi, come quello di essere prodotti in maniera standardizzata e di essere modulari. Ad esempio la Eskom si ripromette di costruire in un unico sito 10 moduli da 110 MW, ed in tal modo avere un impianto paragonabile a quello di un unico reattore LWR o HWR che solitamente hanno una potenza di 1000 MW.

l vantaggi che sono propri di un reattore di piccole dimensioni, come la modularità, la standardizzazione di progetti e procedure, la prefabbricazione dei componenti e semplificazioni supplementari, interessano in particolare i paesi in via di sviluppo che possono importare dal Sud Africa queste unità di potenza a costi contenuti. Senza disporre in partenza di tutti i prerequisiti per le grandi centrali – una moderna rete elettrica capace di assorbire la potenza elevata, molto personale qualificato, grandi investimenti di capitali – con le piccole centrali HTR i paesi in via di sviluppo possono usufruire dei vantaggi intrinseci dell’energia nucleare nella prospettiva di potenziare progressivamente questo settore con investimenti successivi. Le piccole dimensioni e la tecnica standardizzata garantiscono tempi di costruzione molto ridotti e un facile adeguamento modulare alla crescita del fabbisogno di potenza. Alla Eskom calcolano che, una volta raggiunti certi standard di produzione, dall’ordinazione all’entrata in servizio dell’impianto non debbano trascorrere più di tre anni, due dei quali per la costruzione vera e propria. Ovviamente diversi reattori modulari possono essere costruiti contemporaneamente.

Alla fine del decennio alla Eskom prevedono di essere in grado di produrre 30 reattori l’anno, 10 per uso interno e 20 per l’export. Tra i clienti più probabili figurano Cina e Taiwan, Corea del Sud, India e altri paesi asiatici.

 

I costi

Il costo di sviluppo del primo reattore sudafricano è di 72 milioni di dollari. La costruzione della prima centrale dovrebbe costare 100 milioni di dollari e le prime dieci successive circa 90 milioni. Si stima inoltre che con questa tecnologia i costi complessivi dell’energia possano essere ridotti fino a 2 centesimi di euro per Kwh (il prezzo di generazione in Italia oscilla tra i 3,6 ed i 5,91 centesimi, e si può considerare una media di 4,6 centesimi).

La stima ha sollevato molte perplessità, in particolare tra coloro che non hanno un’idea chiara di questa tecnologia. Ma alla Eskom sono sicuri di aver fatto bene i conti.

Uno dei fattori più importanti di contenimento dei costi è quello della sicurezza intrinseca passiva che contraddistingue l’HTR denominato PBMR (Pebble-bed Modular Reactor). I reattori convenzionali infatti debbono essere dotati di sistemi attivi ridondanti di sicurezza che finiscono per incidere notevolmente sui costi, mentre il PBMR non può in alcuna cicostanza surriscaldarsi o emettere radioattività, come è chiarito di seguito.

Un secondo fattore è l’alto tasso di sfruttamento del combustibile fissile rispetto alle tecnologie tradizionali. Altri fattori di economicità riguardano la realizzazione di impianti che essendo di modeste dimensioni e richiedendo procedure già standardizzate comportano un costo inferiore rispetto agli impianti tradizionali.

L’impresa sudafricana si avvale di importanti contributi internazionali nello sviluppo della tecnologia PBMR. Oltre alla collaborazione della Germania, dove la tecnologia è stata originariamente sviluppata, il progetto è anche assistito dall’Istituto Kurchatov russo, dove vengono effettuati collaudi degli elementi di combustibile, dalla AEA inglese, dalla NRG olandese e dalla INET cinese.

 

Beneficio per l’industria

La versatilità inerente del sistema PBMR apre prospettive che non si limitano alla produzione elettronucleare, ma, come sottolineano i tecnici della Eskom, con il recupero del calore residuo che raggiunge anche i 90°, si prospettano applicazioni termiche come la dissalazione dell’acqua. Su questo tema sono iniziate delle consultazioni con l’International Atomic Energy Agency e con il governo del Marocco.

L’impiego del PBMR nei processi industriali gode del vantaggio che gli impianti possono essere ubicati praticamente ovunque: in zone isolate, come lo possono essere i giacimenti minerari in cui occorre molta energia per gli impianti estrattivi, per le raffinazioni preliminari, per le lavorazioni chimiche sul luogo; ma anche, data la sicurezza intrinseca dell’impianto, in zone abitate, dove servono per le applicazioni termiche industriali.

 

Che cos’è il pebble-bed

Fin dall’inizio l’HTR fu concepito come un reattore intrinsecamente sicuro e soprattutto economico, ma anche altamente versatile, modulare, di facile esercizio e manutenzione.

L’aspetto essenziale della sicurezza intrinseca è dovuto all’invenzione, in America, delle “coated particles”, le particelle di combustibile avvolte da rivestimento ceramico. Solitamente all’uranio per i reattori viene data la forma di cilindretti che vengono infilati nelle guaine metalliche, le barre di combustibile. Nell’HTR invece il combustibile è costituito da granelli di ossido di uranio fini come la sabbia che sono incapsulati in diversi strati di materiali resistenti alle alte temperature, soprattutto carburo di silicio. Il vantaggio fondamentale di questa schermatura è che essa assorbe quasi tutti i prodotti di fissione sviluppati dall’uranio trattenendoli anche quando vengono raggiunte le temperature più elevate.

Nel “pebble-bed” gli elmenti di combustibile sono costituiti da sfere delle dimensione di una palla da tennis, detti “pebble” (ciottoli). Ciascuna di queste sfere contiene migliaia di sferette di uranio con il relativo rivestimento, il tutto racchiuso in una matrice di grafite. I “pebble” a loro volta possono essere dotati di altri rivestimenti allo scopo di aumentarne la capacità di assorbire i prodotti di fissione o per dotarli di maggiore resistenza ad ossidazione e corrosione. L’ultima opzione serve in particolare nel caso in cui come refrigerante si usi l’acqua al posto dell’elio, com’è previsto nel modello del pebble-bed a bassa temperatura ideato dal prof. Schulten.

Il nocciolo del reattore è un contenitore riempito di centinaia di migliaia di sfere, la sua forma è cilindrica con l’estremità inferiore a forma di imbuto. A regime, ciascuna sfera produce circa 500 watts di calore. Diversamente dai normali reattori ad acqua leggera, che debbono essere spenti solitamente una volta l’anno per consentirne l’alimentazione, il pebble-bed è un sistema a ricarica continua: le sfere deplete vengono scaricati dalla parte inferiore ad imbuto del nocciolo e quelle nuove vengono aggiunti dall’alto.

Dosando l’introduzione delle sfere nuove insieme a quelle già parzialmente sfruttate e l’introduzione di altre fere di grafite per moderare la reazione, è possibile calibrare il livello di reattività desiderato.

Il modello sudafricano del PBMR consta di un nocciolo alto 18 metri in cui sono contenuti circa 300 mila sfere di combustibile e 130 mila sfere di grafite. Per la vita utile del reattore è previsto un consumo complessivo di sfere pari a 10-15 ricariche complete di combustibile. Nelle prime fasi di alimentazione l’uranio sarà arricchito al livello del 4% e successivamente dell’8%. Ciascuna sfera contiene circa nove grammi di uranio.

L’assenza di guaine metalliche garantisce l’impossibilità di guasti di natura meccanica – inceppamenti o pericolose torsioni – che possono verificarsi nei reattori tradizionali. Le barre di controllo non scorrono nel nocciolo ma in appositi canali esterni.

Sulla scorta delle esprienze sin ora acquisite è assodato che il rilascio di prodotti radioattivi dagli elementi di combustibile è a livelli bassissimi, di gran lunga inferiori a quelli dei reattori LWR che operano a temperature molto più basse. Il rivestimento che scherma il combustibile è in grado di assorbire i prodotti di fissione restando inalterato fino alla temperatura di 1600°. Di contro, le guaine metalliche delle barre nei reattori LWR finirebbero per essere danneggiate a temperature molto inferiori, con conseguente fuga di materiale radioattivo.

L’elio liquido impiegato come refrigerante nel reattore pebble-bed di 500 MW di Schmeehausen in Germania aveva un livello di radioattività tanto basso che una sua ipotetica inalazione non avrebbe comportato rischi di sorta.

I reattori HTR sono stati resi ancora più “puliti” dal successo conseguito dai laboratori diretti dal prof. Schelten nel mettere a punto un nuovo materiale ceramico a base di carburo di silicio, il “Siamant”. La nuova ceramica consente di realizzare delle sfere che non lasciano fuoriuscire nessuna radioattività, anche nel caso fossero raggiunte le temperature massime concepibili in caso di incidente, errore o anche sabotaggio del reattore.

La bassissima emissione di radioattività del combustibile in qualsiasi circostanza ammissibile, consente una semplificazione notevole degli impianti e dell’esercizio dell’HTR. Rende in particolare più facile produrre elettricità a ciclo diretto, ponendo cioè la turbina direttamente nei circuiti di raffreddamento del reattore, per ottenere rendimenti maggiori. Nei reattori tradizionali l’acqua di raffreddamento che entra in turbina deve essere trattata con particolari accorgimenti per minimizzarne la radioattività.

 

Turbine ad elio

Il PBMR in fase di realizzazione in Sud Africa presenta un’innovazione molto importante rispetto ai modelli precedenti in quanto per la prima volta l’elettricità per uso commerciale sarà generata a ciclo diretto.

La turbina ad elio è caratterizzata dalla stessa semplicità e compattezza che distinguono tutto il progetto HTR. Come fluido termovettore l’elio è di gran lunga più efficiente dell’acqua, garantisce cioè un maggior rendimento termico. Inoltre, nell’elio la velocità del suono è cinque volte maggiore di quella dell’aria, questo, consentendo una velocità di rotazione molto elevata, comporta una notevole riduzione delle dimensioni della turbina. In terzo luogo l’elio è chimicamente e radiologicamente inerte.

Il PBMR prevede un unico circuito di refrigerazione ad elio, senza i costosi scambiatori di calore e i circuiti secondari ad acqua dei tradizionali reattori ad acqua leggera. Attraversando il nocciolo del reattore, l’elio raggiunge la temperatura di 900° e passa direttamente in turbina dove la sua espansione termica si trasforma in moto rotatorio per l’alternatore che produce elettricità. L’elio espanso viene quindi riciclato da due turbocompressori che lo rimmettono nel nocciolo ad una temperatura di 569°. A tale temperatura di esercizio l’HTR sudafricano raggiunge un rendimento netto del 45%, rispetto a quello del 30-35% dei tradizionali reattori LWR.

Il calore residuo, rimosso da una refrigerazione ad acqua o ad aria, è a disposizione delle applicazioni termiche industriali o civili.

 

La sicurezza intrinseca

Per apprezzare fino in fondo la sicurezza intrinseca dell’HTR si tengano presenti le due impostazioni diverse seguite nel definire la sicurezza degli impianti nucleari.

Nei principali impianti commerciali si parte dal calcolo di probabilità in cui il rischio che si verifichi un’emissione pericolosa di radioattività è tanto basso da essere considerato “accettabile”, o meglio, “insignificante”, messo a confronto degli altri rischi delle attività industriali o i rischi comunemente accettati nella vita quotidiana.

Scopo della progettazione non è l’eliminazione di ogni possibilità di un incidente serio, perché questo è intrinsecamente impossibile con la tecnologia LWR, ma quello di ridurne la probabilità al minimo concepibile grazie alla ridondanza dei sistemi di sicurezza.

Secondo l’altra impostazione invece, seguita con l’HTR, sono le caratteristiche fisiche del reattore che escludono, in ogni condizione concepibile, la possibilità di un incidente che possa provocare l’emissione di dosi apprezzabili di radioattività. È opportuno notare che questa seconda impostazione è anche alla base della progettazione di altri reattori di moderna concezione.

Mentre è ovvio che la seconda impostazione è preferibile alla prima, per vari motivi dovuti alla storia del settore, nell’industria elettronucleare prevale ancora la prima impostazione.

La caratteristica fisica di base dei grandi reattori LWR che oggi sono più diffusi presenta essenzialmente due possibilità di incidenti seri, in linea di principio:

• Incidente di reattività. Una reazione a catena incontrollata che si verifica come conseguenza di imprevisti che vanno dai guasti al sistema di controllo, ad errori nelle procedure fino al sabotaggio.

• Un surriscaldamento, che può anche comportare la fusione del nocciolo, che comporta la rottura delle barre del combustibile e conseguente emissione massiccia di radioattività. Questo può essere provocato da guasti ai sistemi di raffreddamento, o il loro semplice spegnimento per errore o per sabotaggio.

Un incidente del primo caso è quello che portò al disastro di Cernobil. Un incidente del secondo caso è quello che si verificò a Three Miles Island. In questo secondo caso i livelli pericolosi di radioattività furono raggiunti solo dentro gli impianti della centrale e in nessun caso nei vicini centri abitati. Il danno comunque fu grave perché la chiusura e lo smantellamento dell’impianto comportò costi davvero elevati.

I problemi del primo tipo sono complicati dal fatto che i reattori LWR non sono alimentati continuamente, ma debbono essere spenti e ricaricati. Ogni nuova ricarica delle barre di combustibile deve avere una notevole reattività in eccesso, quanta ne occorre per poter mantenere per diversi mesi l’autosostenimento della reazione nucleare di fissione (criticità) anche in una situazione in cui buona parte del combustibile è già depleto. Se, per qualsiasi motivo, le barre di controllo della reazione finiscono per essere ritirate, la reazione a catena uscirebbe presto da ogni controllo, con conseguenze disastrose. In pratica un’evenienza di questo tipo è resa del tutto remota dai sistemi di controllo automatico, di spegnimento d’emergenza e altri sistemi di sicurezza.

Ad aggravare il secondo problema c’è il fatto che nel periodo di attività normale, un reattore accumula una gran quantità di prodotti di fissione radioattivi che generano calore. Di conseguenza, una volta spento il reattore, ponendo fine alla reazione a catena, queste sostanze radioattive nel nocciolo continuano a produrre calore che deve essere asportato dai sistemi di raffreddamento. Nei moderni LWR, dove il calore generato dopo la reazione è tale da compromettere l’integrità dei materiali, una volta spenta la reazione il raffreddamento del nocciolo è affidato a appositi sistemi multipli, concepiti in maniera tale da potersi supplire a vicenda, per cui la possibilità che finiscano fuori servizio tutti insieme è estremamente remota.

Mentre è fuori di dubbio che i reattori LWR attualmente in funzione siano molto sicuri, occorre notare che questa sicurezza è ottenuta al prezzo di grossi investimenti nelle strutture e nei sistemi che la debbono garantire e dalla estrema severità nella produzione dei componenti (“qualità nucleare”). Complessivamente la sicurezza assorbe attorno al 30-50 per cento del costo complessivo di un impianto. A ciò si aggiunge il fatto che complessivamente l’impianto assume una complessità tale da renderne la realizzazione e l’esercizio possibili soltanto nel settore avanzato.

Sono stati anche concepiti reattori ad acqua leggera eliminando la necessità di tutti i sistemi attivi di raffreddamento per far fronte ai due tipi d’emergenza indicati. Questo può essere fatto riducendo la radioattività in eccesso e disponendo dei serbatoi per l’acqua di raffreddamento sopra il nocciolo del reattore, in modo che possano far fluire l’acqua per gravità, evitando pompe e circuiti. Ma si tratta di concezioni relativamente remote dal mondo della produzione commerciale di energia elettronucleare perché comportano costi notevoli. In sostanza il limite è principalmente dovuto alla stessa tecnologia LWR, in quanto fu originariamente sviluppata per i motori nucleari dei sottomarini della marina USA, dove i livelli di sicurezza non sono paragonabili a quelli richiesti nei grandi impianti per uso civile.

L’HTR invece, specialmente nella versione pebble-bed, è una tecnologia sin dall’inizio impostata su criteri di sicurezza intrinseca che prescinde da strutture di sicurezza aggiuntive. In tal modo è una tecnologia che può garantire la crescente economicità del nucleare.

 

Due aspetti della sicurezza intrinseca

Il primo aspetto della sicurezza intrinseca dell’HTR è un coefficiente di reattività fortemente negativo. Questo significa che l’efficienza della reazione a catena (il numero medio di reazioni di fissione innescate da un dato neutrone nel reattore) diminuisce molto rapidamente con l’aumentare della temperatura. Questo è dovuto alla geometria del nocciolo e dal materiale che modera la reazione, cioè soprattutto la grafite. Di conseguenza, quando la temperatura supera di molto quella di esercizio, che è di circa 900°, il reattore diventa automaticamente “subcritico”, ovvero, la reazione a catena rallenta rapidamente, senza alcun intervento dall’esterno.

Questo “spegnimento automatico” che si verifica spontaneamente nel giro di qualche frazione di secondo è stato più volte dimostrato con il reattore sperimentale AVR di Jülich. Ad esempio, mentre il reattore era a piena potenza, sono state repentinamente ritirate le barre di controllo ed è stato contemporaneamente disattivato il sistema di raffreddamento. In un reattore tradizionale questo comporterebbe il disastro totale. Ma nell’AVR non è successo niente: la reazione a catena si è immediatamente fermata e la temperatura nel reattore è rimasta nei limiti di tolleranza degli elmenti del combustibile.

Il secondo aspetto riguarda le dimensioni modeste del reattore PBMR e la sua densità relativamente bassa; queste caratteristiche consentono una naturale diffusione del calore attraverso il contenitore del reattore (vessel) per cui, una volta spento il reattore, il “raffreddamento passivo” è sufficiente a mantenere la temperatura massima del nocciolo ben al di sotto i 1600° che sono il limite di tolleranza degli elementi di combustibile.

Queste due caratteristiche primarie escludono, in ogni circostanza, la possibilità di un incidente di reattività, senza alcun apporto di sistemi di sicurezza aggiuntivi, con tutti i vantaggi economici e di sicurezza che da ciò conseguono.

 

Trattamento delle scorie

Il sistema PBMR promette efficienza e sicurezza anche nel trattamento delle scorie. Nella progettazione degli impianti PBMR è previsto lo stoccaggio del carburante depleto in appositi contenitori in cui viene accumulato nel corso dei quarant’anni di vita utile prevista dell’impianto, senza doverlo trasportare altrove. Alla chiusura definitiva degli impianti, il carburante depleto vi resterà stoccato per altri quarant’anni prima di essere trasportato nel deposito di confinamento, come ogni altra scoria nucleare.

Gli elementi sferici sono già di per sé più facili da trattare delle barre dei sistemi PWR. Inoltre il rivestimento ceramico garantisce il contenimento dei prodotti radioattivi della fusione. La straordinaria stabilità del carbonato di silicio garantisce l’isolamento dei prodotti radioattivi per un arco di un milione di anni, che è un periodo più lungo dell’attività dello stesso plutonio. Così anche il confinamento delle scorie si presenta molto più pratico ed economico di altri combustibili nucleari.

L'articolo è pubblicato nel numero del luglio 2002 di Solidarietà, il bollettino d'informazione del Movimento Solidarietà che i non iscritti possono richiedere telefonicamente agli uffici di Milano: 02/2613058 – 02/26110612


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