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I lavoratori europei contro i frutti di Maastricht

Il 14 febbraio è iniziato al Parlamento Europeo un dibattito sulla Direttiva per i servizi della Commissione Europea, meglio noto come “Direttiva Bolkestein”. La direttiva prevede che entro il 2010 tutti i servizi dell’UE, sotto i quali rientra 70 per cento di tutte le attività economiche europee, siano completamente liberalizzati e deregolamentati.
Sindacati e organizzazioni di categoria si sono giustamente mobilitate di fronte alla minaccia di un crollo generalizzato dei redditi provocata dalla concorrenza non regolamentata dei paesi dell’Europa orientale entrati nell’UE.
Al nocciolo della Direttiva Bolkestein c’è infatti il famoso principio del “paese d’origine” secondo cui un servizio può essere offerto in qualsiasi paesi dell’UE con i salari e le regole vigenti per quel servizio nel paese d’origine, e non quelle vigenti del paese in cui il servizio è effettivamente offerto.
La mobilitazione contro la Direttiva Bolkestein, culminata in una manifestazione di massa a Strasburgo, il 14 febbraio, si colloca in un contesto di scioperi del settore pubblico (in particolare trasporti, sanità, servizi municipali) che sono diventati sempre più intensi nelle ultime settimane. Alla manifestazione contro la direttiva organizzata l’11 febbraio a Berlino dalla confederazione sindacale DGB hanno partecipato 30 mila persone.
La Commissione Europea cerca di evitare che si ripeta l’esperienza di quattro settimane fa, quando il Parlamento Europeo bocciò, con il 532 voti contro 120, la completa liberalizzazione delle attività portuali prevista nella proposta “Port Package II” della Commissione UE e anche la proposta di bilancio 2007-2015 avanzata dalla stessa Commissione. La decisione è avvenuta a seguito di una mobilitazione di protesta del 17 gennaio, quando i portuali, soprattutto di Spagna, Francia, Belgio, Grecia e Svezia, hanno scioperato paralizzando i porti. In diecimila hanno manifestato a Strasburgo per chiedere al parlamento europeo di bocciare la proposta Port Package II.
Per questo motivo adesso la Commissione UE cerca di esibire una certa disponibilità a raggiungere “compromessi” sulla questione del “paese d’origine”. Fin ora però si registrano prevalentemente tatticismi negoziali che non sembrano intaccare la sostanza della liberalizzazione e della deregolamentazione della direttiva.
Alcuni euro-parlamentari, socialisti e conservatori, hanno salutato la formula di “compromesso” mentre i sindacati continuano ad opporsi definendolo un “compromesso marcio”, ed esortano gli euro-parlamentari a non cadere in questa trappola.
A prescindere da come gli euro-parlamentari voteranno il 16 febbraio, i sindacati sono impegnati a combattere ad oltranza contro la politica della Commissione UE.
Il movimento di LaRouche è intervenuto in questo fermento con un volantino diffuso soprattutto nelle manifestazioni in cui si esorta a trasformare l’ondata di proteste contro la direttiva sui servizi in una spallata decisiva che faccia crollare il vero male dietro ogni politica di cui la Commissione si fa promotrice: il sistema del Trattato di Maastricht.
Il sindacato tedesco dei servizi, “ver.di”, che con 2,4 milioni di iscritti è il secondo del paese, ha già iniziato il 6 febbraio uno sciopero a tempo indeterminato dei servizi pubblici nello stato del Baden-Wuertemberg, al quale hanno poi aderito il 13 febbraio altri nove stati: Schleswig-Holstein, Hamburg, Bassa Sassonia, Sassonia-Anhalt, Sassoni, Nord Reno-Westfalia, Saarland, Renania-Palatinato e Baviera. Questo sciopero si oppone ai piani di portare le ore lavorative da 38,5 a 40, senza compenso, ma si tratta di una contestazione più generale contro i tagli degli investimenti, i licenziamenti, le delocalizzazioni e le privatizzazioni. Lo sciopero ha riscosso il sostegno dell’associazione degli statali (DBB) che ha pubblicato inserzioni nei principali quotidiani tedeschi criticando la politica dei tagli, a cui si deve la perdita di 1,2 milioni di posti di lavoro dal 1992.


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