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Il Titanic finanziario

11 maggio 2006 – Mentre continua la corsa esponenziale dei prezzi al rialzo nel mercato delle materie prime (solo a titolo di esempio: il rame ha toccato gli 8.100 dollari la tonnellata il 9 maggio, il massimo storico; l'oro ha raggiunto i 700 dollari l'oncia), la Federal Reserve ha deciso di alzare di mezzo punto percentuale il tasso di riferimento, lasciando inoltre aperta la porta ad ulteriori rialzi futuri.

La manovra è stata intrapresa nel tentativo di arginare la spinta speculativa proveniente dagli hedge funds e dalle operazioni di fusione e acquisizione nei settori strategici delle “commodities”.

Ma la mossa di Bernanke ha anche un'altra valenza: alzando i tassi, cresce lo spread tra quelli americani e quelli di Giappone e Unione Europea, rendendo più appetibili i titoli di stato USA rispetto agli altri e ridando fiato al cosiddetto Carry Trade.

Infatti, nel campo minato in cui la FED si trova a muoversi, oltre al pericolo di un'iperinflazione e quello dello scoppio delle varie bolle speculative (prime tra tutte quelle interconnesse dei derivati e immobiliare), esiste il pericolo, col passare del tempo sempre più concreto, di un crac del dollaro.

Infatti questo argomento sta balzando agli onori delle discussioni ai più alti livelli del mondo finanziario.

Secondo due rapporti concordanti di Bloomberg e del Financial Times, la settimana scorsa c'è stato un aspro confronto tra i rappresentanti americani e cinesi all'annuale summit della Asian Development Bank (la ADB, a dispetto del nome conta tra i maggiori componenti proprio gli USA) che si è tenuto in India a Hyderabad.

Materia del contendere è stata la recente richiesta pressante rivolta alle autorità di Pechino da parte del Segretario al Tesoro USA Timothy Adams, affinché si avvii un apprezzamento della valuta cinese nei confronti di quella statunitense; questo ipoteticamente per cercare di contenere il sempre più stellare deficit americano, tra le primarie cause del quale ci sono infatti le importazioni dai paesi asiatici.

Ma la risposta pare sia stata alquanto spiazzante. Infatti il vice ministro delle finanze cinese Yong Li, ha detto di “aver sentito voci sul fatto che il dollaro potrebbe deprezzarsi del 25%”; il messaggio criptato sarebbe stato: “non provate nemmeno a parlare di mandare giù il dollaro”; infatti a causa delle ingenti riserve in dollari detenute e della patologica dipendenza dell'economia cinese dalle esportazioni verso gli USA, un crollo del biglietto verde sarebbe l'ultima cosa che un paese asiatico potrebbe desiderare.

Martin Wolf del Financial Times, nel riportare i dubbi del ministro delle Finanze giapponese Sadakazu Tanigaki sulla possibile ondata speculativa che un riallineamento dei tassi di cambio potrebbe portare, ha scritto che ci stiamo avvicinando alla resa dei conti: o un forte deprezzamento del dollaro oggi, o un crac più in là. Wolf ha anche parlato dei disordini economici che si potranno verificare, paragonandoli a quelli seguiti al crollo del sistema di Bretton Woods del 1971.

Anche la mossa, riferita dal quotidiano tedesco Handelsblatt, da parte della Banca Centrale Cinese di sostituire parte delle riserve in dollari con oro, va vista in questo contesto. Anche il ministero della Terra e delle Risorse di Pechino ha detto di voler istituire riserve in materiali strategici quali rame, uranio, ferro, alluminio, manganese, cromo e potassio.
Sembra che non ci sia poi tutta questa fiducia nelle manovre di Ben Bernanke.


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