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Le pubblicazioni militari invitano Rummie a fare le valigie

7 novembre 2006 – Le pubblicazioni di tutt'e quattro le armi della difesa USA hanno pubblicato il 6 novembre, alla vigilia del voto, un editoriale in cui si chiede il licenziamento di Donald Rumsfeld a prescindere dai risultati elettorali. L'episodio, senza precedenti, è avvenuto il giorno che Bush ha giurato di tenersi Rummie forever.
Le pubblicazioni sono Army Times, Air Force Times, Navy Times, e Marine Corps Times, tutt'e quattro di proprietà del Military Times Media Group.
“A prescindere da quale partito vincerà il 7 novembre è giunto il momento, signor Presidente, di accettare una verità molto amara: Donald Rumsfeld se ne deve andare”. “Una cosa è che la maggioranza pensi che Rumsfeld abbia sbagliato. Ma quando i leader militari della nazione cominciano a prendere in pubblico le distanze dal Segretario della Difesa, allora è chiaro che questi perde il controllo delle istituzioni che dovrebbe guidare”.
Sull'Iraq: “Nonostante gli sforzi migliori compiuti dagli addestratori americani, il problema di portare una popolazione visceralmente settaria ad avere qualcosa che assomigli ad una forza di unità nazionale è diventata un'impresa disperata. Per due anni sergenti, capitani e maggiori americani che hanno addestrato gli iracheni hanno riferito ai superiori che le truppe irachene non hanno un senso di identità nazionale, sono lì solo per lo stipendio, non si presentano ai turni e non sono in grado di badare a sé stesse. E per tutto il tempo Rumsfeld ci ha rassicurato che tutto stava andando per il meglio”.
Nel commento si cita anche il gen. John Abizaid, capo del Comando Centrale USA, che avrebbe riferito alla Commissione difesa del Senato, lo scorso settembre: “Ritengo che la violenza settaria sia tanto grave, qualcosa che credo di non aver mai visto ... E se non si pone un freno è possibile che l'Iraq precipiti nella guerra civile.”

Il gen. Odom spiega come tagliare la corda

Il generale USA in congedo William Odom è l'autore di un commento del Los Angeles Times del 31 ottobre intitolato “Come tagliare la corda”. “Potremmo condurre il Medio Oriente alla pace ma solo se la piantiamo di rifiutarci di fare ciò che occorre”, ha scritto Odom, aggungendo che gli USA hanno “alterato gli equilibri nella regione mediorientale quando hanno invaso l'Iraq. Il loro ripristino esige iniziative decise, ma tutto dev'essere preceduto dal 'tagliare la corda'. Soltanto un ritiro completo di tutte le truppe USA - nel giro di sei mesi e senza porre condizioni - può superare la paralisi che blocca ora la nostra diplomazia. E gli ostacoli maggiori per tagliare la corda sono le inibizioni psicologiche dei nostri leader e del pubblico”.
Il pubblico non deve lasciarsi accecare dalle illusioni che il presidente nutre sul conto dell'Iraq. “La realtà non può essere più a lungo evitata. Impedire la violenza sanguinaria delle fazioni in Iraq e l'estendersi dell'influenza iraniana in tutta la regione non è nelle facoltà degli USA. Il probabile diffondersi delle lotte tra sunniti e sciiti negli stati arabi vicini, il rischio che si affermi il leader sciita radicale Moqtada Sadr o qualche altro anti-americano viscerale a Baghdad, e il diffondersi della destabilizzazione oltre l'Iraq ... La realtà si aggrava ogni giorno di più che le nostre forze restano in Iraq”.
Per stabilizzare e calmare la situazione il gen. Odom propone quattro iniziative principali: “Primo, gli USA concedano di aver provocato dei guai, di non essere in grado di stabilizzare la regione da soli e decidano di prestare ascolto a ciò che gli altri hanno da dire su come sia meglio procedere”. Questo riguarda gli europei, il Giappone, la Cina e l'India. “La seconda iniziativa sta nel creare un forum per la diplomazia dei vicini dell'Iraq. L'Iran dev'essere ovviamente chiamato a dire la sua ... Terzo, gli USA debbono formalmente cooperare con l'Iran in aree di interesse comune. Non c'è nient'altro che potrà migliorare la nostra posizione nel Medio Oriente”. Questo significa anche “rinunciare ad opporsi al programma nucleare militare iraniano ... Quarto, compiere progressi effettivi nella questione palestinese come base per la pace nel Medio Oriente ...”.

Kerry risponde alla Casa Bianca

Gli sciacalli della Casa Bianca hanno voluto interpretare una battuta mal riuscita dell'ex candidato democratico alla Casa Bianca John Kerry come una rampogna agli studenti: se non studi, sarai spedito a combattere in Iraq, dove finiscono i testoni. Dalla Casa Bianca hanno addirittura chiesto al senatore di chiedere scusa ai soldati. Kerry ha risposto: “Se qualcuno pensa che un reduce possa criticare gli oltre 140 mila eroi che prestano servizio in Iraq invece che il presidente che li ha mandati lì è pazzo. Non ne posso più delle critiche abbiette dei repubblicani, che provengono sempre da chi non ha mai prestato servizio militare in guerra, ma si crogiuola nel criticare noialtri che l'abbiamo prestato. Non mi faccio fare la predica da uno spaventapasseri in frac messo dietro il microfono della sala stampa della Casa Bianca, o da un mortadellone come Rush Limbaugh ...
“Questi repubblicani non hanno il coraggio di sostenere il confronto con i reduci che si preoccupano ogni giorno dei problemi delle truppe, e si accontentano degli slogan vacui con cui l'amministrazione manda le truppe in guerra senza nemmeno gli autoblindo con cui proteggersi. ... Ma questa volta non funzionerà ... Nessun democratico si lascerà intimidire da un'amministrazione che ha come strategia quella di tagliare la corda in Afghanistan e di impantanarsi e perdere in Iraq”.
Un commento molto emotivo e abrasivo contro il presidente, su questo stesso tema, è stato pubblicato il 2 novembre dal New York Times. Intitolato “il grande divisore”, il commento nota come Bush abbia perso la capacità di intervenire sulle questioni reali per cui non gli resta che la campagna negativa, denigrare i rivali della sua vita fatta di sole fantasie. Il giornale fa la lista degli insuccessi clamorosi che Bush chiama successi. L'ultima trovata è che se i democratici vincono le elezioni sarebbe una vittoria del terrorismo e una sconfitta dell'America. “Ha fatto ricorso ai colpi bassi distorcendo una battuta maldestra e malriuscita del sen. John Kerry ... una riedizione della campagna del 2004 [sulla vicenda Swiftboat in Vietnam] ... mirante a presentare Kerry, che era andato in guerra, come un codardo, e Bush, che era rimasto a casa, come un eroe”.
“Non è la prima volta che Bush gioca la carta della paura, della rabbia e della divisione; non ha mancato una sola occasione per sventolare la bandiera insanguinata dell'11/9. Ma questa volta è andato oltre: ci lascia nel dubbio se questo presidente sia mai disposto ad ammettere il bipartitismo, la possibilità del compromesso e l'interesse nazionale nei due anni in cui resterà in carica”.


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