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Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietà
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Intervento di Catia Polidori alla conferenza EIR “La crisi sistemica internazionale e una via d’uscita rooseveltiana”, Roma (28.2.2008)

 

Grazie Claudio, e grazie anche al prof. LaRouche, che finalmente, devo dire, conosco di persona, perché in realtà, avendo invitato i suoi allievi ovunque fosse possibile invitarli per sentire le sue teorie, in parte, già, credo già di conoscerLa.

Claudio mi ha chiesto di spiegare che cos’è la Confapi perché, capisco, il mondo italiano, da questo punto di vista, è molto complicato, è pieno di confederazioni, di associazioni... La nostra è la Confederazione Italiana della Piccola e Media Impresa. Associa sessantamila aziende. Per piccola e media impresa si intende il concetto italiano di piccola e media impresa, che è veramente una piccola e media impresa: si va da venti a cento addetti, più o meno, come genere di associazionismo.

Più volte, come ho già detto, grazie agli amici di Ascoli Piceno, che vedo qui presenti, grazie al nostro Congresso Nazionale, dove era presente anche l'on. Gianni, che colgo l'occasione per ringraziare nuovamente, ho sentito... (parlo sempre a nome di tutti i miei giovani imprenditori, ovviamente) abbiamo sentito - parlare di teorie che, mi consenta, in maniera molto affettuosa definisco visionarie. E' per questo che, in maniera curiosa, ci avviciniamo a questi concetti, che per noi, anche per cultura, probabilmente - e mi riferisco proprio alla cultura scolastica e universitaria  -  sono completamente nuovi.

Di certo la cosa che condividiamo di tutto quello che Lei ci racconta, quella che sentiamo come imprenditori sulla nostra pelle, sulle nostre spalle, è il fatto che c'è un grosso scollamento tra quello che è l'economia reale e l'economia finanziaria. L'economia finanziaria, pur seguendo un suo iter, dovrebbe quantomeno, dal punto di vista imprenditoriale, essere a supporto, accompagnare in qualche maniera le imprese. Invece, ahime, questa continua variazione dei tassi che sicuramente denota la crisi, o l'anticipo della crisi, di cui Lei sta parlando, cambia con un lasso temporale incredibile, cioè di pochi mesi, le condizioni di competitività delle nostre aziende, aziende che invece devono necessariamente, intelligentemente programmarsi in maniera quantomeno pluriennale.

 E' chiaro che la situazione delle piccole e medie imprese che noi viviamo.. io la vedo un po' come un vaso di coccio, molto fragile, stretto tra la crescente competitività e, dall'altra [parte], spinto da questa completa instabilità dei mercati finanziari. Probabilmente ciò che potremmo, forse, proporre in maniera del tutto epidermica, è sicuramente un passaggio culturale: è l'ora che la politica economica inizi a preoccuparsi, non solo come ha fatto in questi ultimi anni, della stabilizzazione del ciclo del prodotto interno lordo, ma inizi ad occuparsi finalmente della stabilizzazione del ciclo finanziario. Ma non ex post, come sta facendo adesso, con armi spuntate, oserei dire; ma ex ante, quindi non preoccuparsi delle bolle speculative, di cui Lei parlava prima, che scoppiano, ma preoccuparsi di non farle gonfiare, queste bolle speculative. Chiaramente occorrono degli strumenti, ma forse lo strumento di cui Lei ha parlato prima - e in questo caso appaio sicuramente molto poco pragmatica, come imprenditrice -, lo strumento più importante è quello della leadership, una leadership creativa, che sappia guardare oltre il contingente. Qui chiaramente mi viene da chiamare in causa la responsabilità politica dei nostri dirigenti.

In tutto ciò che ha detto - io devo sfruttare il fatto che Lei è qui, l'ho fatto anche con i suoi allievi - ci sono alcune domande che io vorrei porLe. A differenza dell'on. Gianni, noi giovani imprenditori ci siamo detti più volte favorevoli al nucleare, ma non al nucleare semplicemente parlando di quello specifico problema; dire nucleare, potrebbe voler dire innovazione tecnologica, potrebbe voler dire ricerca, potrebbe voler dire possibilità di sviluppo, possibilità di guardare - ripeto - oltre il contingente.

Il problema vero che si presenta è quello di superare culturalmente la sindrome del NIMBY, Not In My Back Yard ("sì, ma non nel mio giardino"). Questo è un problema culturale dell'Italia; difficile da superare, anche perché in maniera responsabile ci si pone sicuramente la questione di come procedere in modo innovativo, tecnologicamente parlando, e di come rispettare i vincoli ambientali, questo patrimonio incredibile che la Terra ci ha dato.

D'altra parte la globalizzazione c'è; non la possiamo rimandare a casa; [è] inutile parlare degli effetti positivi e negativi di questa globalizzazione... probabilmente occorre fermarsi un secondo e riflettere sul fatto che possiamo giocarla, possiamo essere attori di questa globalizzazione (possiamo, intendo, come imprenditori). Probabilmente dovremmo fermarci un secondo, e smettere di correre dietro alla concorrenza esasperata, pensare a "proteggerci dalla globalizzazione" (dove per 'protezione' non intendo una chiusura verso la globalizzazione), ma trovare una forma di apertura consapevole, soprattutto conoscitiva della globalizzazione.

Non solo: è poi vero che delocalizzare sia così profittevole per le nostre aziende? Domanda che ci stiamo ponendo negli ultimi periodi, perché abbiamo visto - e io ho letto anche qualcosa che LaRouche ha scritto in proposito - come molti di noi che hanno delocalizzato, siano poi tornati a casa. Se è vero che il fattore principale dell'evoluzione spesso è la casualità, è altresì vero che non è detto - come vorrebbe la teoria darwiniana - che il più forte vince: potrebbe esser vero che invece vince quello preparato, quello appoggiato, accompagnato dalla politica in un percorso intelligente di delocalizzazione.

 Forse il dubbio che mi viene è che se il più forte vince, e ha vinto, la cosa peggiore che sta succedendo è che non è detto che rivinca di nuovo. Cioè che vince davvero casualmente, non ha un metodo, una ricetta per vincere, quella che a noi manca. Bisognerebbe vincere la guerra, no? Non solo la battaglia.

Nonostante ci sia stata effettivamente una ripresa nel biennio 2006-2007... perlomeno gli economisti l'hanno registrata... la vera disfatta, la vera anomalia che io posso notare è che noi siamo avvitati attorno ad una perdita di fiducia, perché nonostante quella ripresa, non sono cresciuti gli investimenti. Ora, vero è che le famiglie vivono sul debito, per cui vero è che le famiglie non hanno soldi da investire. Vero è, però, anche, che quelle ricchezze che sappiamo esserci, non sono state impiegate in investimento. Quindi, mancanza di fiducia forte in tutto quello che è il sistema. Non si può parlare, forse, in Italia, di crisi economica, quanto probabilmente di crisi sistemica generale.

[Queste erano] due o tre riflessioni... Io devo approfittare del fatto che il professore è qui, invitandolo ufficialmente, non perché Claudio Celani e Spannaus non siano stati all'altezza; ma invitandolo a partecipare al nostro congresso annuale.

(Applausi)



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