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Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietà
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Morire di Sussidiarietà

Modelli economici e civili nell'era della globalizzazione


22 luglio 2012 (MoviSol) - Pubblichiamo un'analisi del nostro socio Andrea Pomozzi.


«Lo Stato è una gran famiglia. Di qui seguita, che come nelle ben governate famiglie non si pensa solamente ad avere numerosa prole, ma a' mezzi altresì di bene educarla, istruirla, e mantenerla con comodità: a quel modo medesimo è necessario, che nello Stato col promuovervi la popolazione, si studi di bene educar la gente per la parte dell' animo e del corpo, e procacciarle proporzionevolmente i mezzi di sostenersi.» (Lezioni di commercio o sia d'economia civile, da leggerli nella cattedra interiana, dell'ab. Genovesi regio cattedratico - parte prima, pel primo semestre. In Napoli 1795. Appresso i fratelli Simone. Con autorità di superiori).

Sarà forse capitato anche a voi di percepire, ultimamente in misura sempre crescente, una politica fatta di slogan e frasi ad effetto: messaggi semplici e diretti che puntano a colpire l'immaginario collettivo. È la nuova frontiera della comunicazione politica, l'unica realmente efficace in tempi di nervosismo e impazienza, sociale ed istituzionale[1] Il risultato è, nel migliore dei casi, una non-comunicazione, una strategia che punta a celare le reali motivazioni dietro talune scelte politiche o l'immobilismo. Del resto non c'è tempo. Siamo in piena emergenza...

Eppure a volersi fermare a riflettere, si scorge una stridente contraddizione negli appelli sempre più frequenti e pressanti, da un lato per accelerare il processo di cessione della sovranità nazionale all'interno del quadro europeo, dall'altro in favore di maggiore "democrazia diretta". Incoerentemente da un lato si vogliono allontanare - sia geograficamente, sia verso l'alto nella scala istituzionale - i centri di potere e di governo del territorio, dall'altro lato si richiede a gran voce più "democrazia partecipativa". Da una parte si esalta il "sacro vincolo europeo", dall'altra si pretendono autonomia e potere decisionale su scala regionale. Da un lato si delegano le funzioni vitali di una società civile a istituzioni sovranazionali non democraticamente elette (politica monetaria, fiscale, legislativa,...)[2] per altro verso si invoca il principio di sussidiarietà. Da una parte si domanda maggiore integrazione e unità d'intenti a livello europeo, dall'altro vi è un moltiplicarsi di localismi, provincialismi ed egoismi particolari. "Forze centrifughe concorrenti", avrebbe sospirato il mio vecchio professore di fisica. E si sa, quando si giunge al limite di rottura del materiale sottoposto a tali forze, il tutto va in frantumi. Analogamente potrebbe capitare agli stati nazionali.

Qualcuno teme questo processo di disgregazione, molti probabilmente lo auspicano. Siamo in presenza di un cambio paradigmatico nella Storia della civiltà umana? Sembrerebbe che i presupposti ci siano tutti, almeno da un punto di vista sociologico[3] La dinamica politica in corso è ovviamente proposta come bene assoluto per ciascun cittadino europeo, anche se la Storia ci dice altro.

Historia Magistra Vitae

«[...] E questa Pace sia così onesta e seriamente protetta e alimentata che ciascuna parte alimenti il vantaggio, l'onore e il beneficio dell'altro [...] Un fiducioso rapporto di vicinanza sia rinnovato e fiorisca per la pace e l'amicizia e torni di nuovo a fiorire» (Munster in Westphalia, il giorno 24 di Ottobre, 1648).

Non sorprende l'aggregazione di consensi attorno il processo di disintegrazione degli stati nazionali, progetto politico che ha visto la saldatura di una corrente molto grande del mondo cattolico (principalmente quella di matrice liberista "sturziana", che spinge per l'attuazione ampia del principio di sussidiarietà) con la quasi totalità delle componenti di sinistra. Un chiaro ed inequivocabile segno di questa saldatura lo si è avuto anche nella genesi e nella composizione dell'attuale governo, così come nelle diverse anime del partito democratico[4] Potente collante del tutto è la convinzione che individua lo stato nazionale come feticcio vetero-ottocentesco, simbolo dell'ideologia di destra e causa prima di numerose guerre nel vecchio continente. Peccato, che a voler rileggere la Storia europea si evinca invece che tutti i conflitti furono avviati sotto regimi totalitari o monarchici o forme imperiali di controllo del potere: mai la Storia vide un popolo votare democraticamente per l'inizio di un conflitto[5] Negli ultimi trecento anni (circa) dalla firma del Trattato di Westfalia [6], l'umanità ha visto progredire il suo livello di civiltà, di benessere, di conoscenza e ricchezza, come mai era accaduto precedentemente nella Storia. Il trend di evoluzione della scienza, della tecnologia e del sapere in genere, non hanno avuto simili precedenti nei passati millenni della storia umana. Senza timore e volendo vezzeggiare qualche matematico intento nella lettura, potremmo parlare di crescita esponenziale. Non deve stupire che a soli tre anni dalla firma di Westfalia, Thomas Hobbes pubblicò probabilmente la sua opera più famosa: Il Leviathan. Nel libro l'autore inglese paragonava lo Stato nazionale ad una creatura mostruosa le cui membra erano costituite dai sudditi (sic!). L'impero britannico di allora non poteva tollerare che gli Stati nazionali nascessero, crescessero e prosperassero. Erano in gioco la supremazia economico-commerciale e territoriale, nonchè la sopravvivenza dell'impero stesso. Le teorie imperialistiche di Hobbes camminarono sulle gambe di Adam Smith, David Ricardo, Thomas Robert Malthus, Charles Darwin e molto più tardi su quelle di H.G. Wells, socio della Fabian Society.[7]

Dopo secoli di propaganda culturale e campagne di demonizzazione non sorprendono certe visioni, ma tranquillamente possiamo affermare che lo stato nazionale non rappresenta alcun mostro biblico. Per utilizzare un'altra metafora – in verità molto e male adoperata oggi quando si parla di debito pubblico – potremmo sostenere che lo stato nazionale democratico ha svolto nei secoli la funzione di una famiglia. Con le politiche di sviluppo e protezione applicate, i singoli stati nazionali hanno provveduto alla crescita, all'istruzione, alla salute, alla conoscenza, alla cultura dei propri cittadini. Sono i fatti a dimostrarlo. Voler rinunciare a tutto questo in nome di una visione "oligarchica" della società dove una "elite internazionale illuminata" possa e sappia governare popoli con differenze culturali e sociali profonde è quantomeno pericoloso. Del resto i risultati ottenuti negli ultimi venti anni dall'inizio dei processi d'integrazione europea sul fronte monetario e su quello giuridico parlano in maniera inequivocabile.

Lo Stato nazionale rappresenta non un'entità istituzionale "ideologica", ma lo "spazio ottimale" dove una comunità si confronta democraticamente e controlla le istituzioni stesse, poggiando su una cultura e su una lingua nazionali. Esso è una forma di aggregazione civile, un laboratorio sociale che ha condotto ad uno sviluppo umano impensabile fino a qualche secolo fa. È altamente significativo che le spinte disgregatrici nei confronti dello stato nazionale e delle regole da esso imposte, provengano prevalentemente dai sostenitori della globalizzazione, della libera circolazione delle merci e soprattutto dei capitali. Senza gli stati nazionali, i capitali finanziari sono liberi di scorrazzare come i cavalli di Tamerlano[8] favorendo la ricchezza di pochi e l'impoverimento di molti. L'attuale crisi finanziaria e quella economica che ne è conseguita sono l'ennesima riprova di tutto ciò.

Genovesi e la "vera" economia civile

«Perche il commercio dee servire allo Stato, non lo Stato al Commercio. Queste leggi sono come gli argini de' fiumi, i quali servono, non solo perché non sobbissino il Paese, ma ancora affinché i fiumi vadano più uniti, e sieno meglio navigabili. E qui si vuole osservare, che la libertà senza regole è sempre perniciosa così nelle persone, come nelle Civili Società. Nelle persone, perché le mena a tutti gli eccessi delle passioni: e nelle società, perché portando gli uomini al solo intereresse personale o domestico, corrompe in mille modi il ben pubblico». (Lezioni di commercio o sia d'economia civile, da leggerli nella cattedra interiana, dell'ab. Genovesi regio cattedratico - parte prima, pel primo semestre. In Napoli 1795. Appresso i fratelli Simone. Con autorità di superiori).

La contraddizione non si ferma al piano politico ma tocca inevitabilmente l'aspetto economico. Nel campo delle attività produttive, da anni vige il motto: "piccolo è bello"; una enfasi che in realtà diviene sempre più debole con il passare degli anni. Poche settimane addietro così si esprimeva durante un'intervista Andrea Guerra amministratore delegato di Luxottica: «Basta con il "piccolo è bello", bisogna convincersi che bisogna crescere, avere dimensioni maggiori per reggere la concorrenza globale, per poter fare investimenti in tecnologia, per entrare in nuovi mercati e permettersi il lusso di sbagliare, di riprovare, di aspettare, di osservare e magari di avere successo solo dopo cinque anni come succede in un mercato come quello cinese dove oggi noi abbiamo 250 negozi».[9] L'approccio minimalista di alcuni economisti - anche di stampo cattolico[10] - conduce alla frammentazione economico-produttiva e all'assenza di quella "massa critica" così indispensabile soprattutto oggi per innovare, svilupparsi e competere su scala globale. Oramai non vi sono convegni o scuole d'impresa che non trattino il tema delle Reti di Impresa o in cui non si parli di come "fare sistema" o "mettersi assieme"[11] Il miracolo economico italiano difatti non è stato il frutto di una "economia di relazione", basato su di un modello famigliare d'impresa. Al contrario. Gli anni del boom economico italiano hanno visto grandi investimenti statali, la nascita dell'ENI, lo sviluppo della grande industria chimica e metallurgica, la realizzazione di grandi infrastrutture[12] la nascita e l'espansione della Cassa del Mezzogiorno, ecc...: potremmo affermare la concretizzazione di un modello economico che molto si avvicinava a quel concetto di "economia fisica" da tempo introdotto da Lyndon LaRouche[13] Paolo Savona in un suo recente lavoro critica la scelta tutta italiana di aver permesso l'atrofia della grande industria a favore della piccola: «Lo Statuto [dei lavoratori n.d.a.] esonerava la piccola impresa, quella fino a 16 occupati (che, artigiani compresi, raggiungeva la ragguardevole cifra di 6 milioni di unità), imprimendo a essa, che viveva anche di lavoro nero ed evasione fiscale, un impulso ad espandersi. Si ebbe così la prima profonda trasformazione della nostra struttura industriale»[14] Per intenderci: la piccola e micro impresa costituisce circa il 94% del tessuto produttivo italiano, è stata fonte di distribuzione di reddito e di benessere del Paese e va tutelata! Il punto nodale è come tutelarla. Essa è cresciuta negli anni passati proprio sotto l'ala protettiva dello stato nazionale, come frutto di deliberate scelte politiche e spesso all'ombra della grande industria italiana. Amara ironia suscitano quindi le parole di coloro che difendono (giustamente!) la piccola impresa ma al contempo invocano la disgregazione degli stati nazionali, l'abbattimento di qualunque frontiera commerciale, l'eliminazione dei dazi, la liberalizzazione ulteriore dei mercati e dei capitali, ecc... Come dire: la distruzione completa della piccola impresa italiana. All'interno dello spazio economico, lo stato nazionale rappresenta quell'unica forza politica e finanziaria che può investire per il bene collettivo in progetti ad alta intensità di capitale e a lungo termine: infrastrutture di trasporto, progetti di ricerca scientifica e tecnologica avanzata, sistemi di produzione e distribuzione energetica, infrastrutture nel campo della comunicazione, ecc... Progetti in cui nessun privato per quanto "solidale" potrà mai investire. Questo tipo d'investimenti rappresenta la base fondamentale per far crescere le nostre imprese, renderle competitive e tecnologicamente avanzate, farle uscire dalla crisi. Queste tesi sono sostenute oggi anche da autorevoli economisti[15]

Questi concetti, con le ovvie proporzioni dovute al differente periodo storico, furono l'impianto del pensiero economico di Antonio Genovesi[16] Egli considerava la forma di governo sovrano (allora con a capo un monarca illuminato) il primo elemento indispensabile per la prosperità di una nazione: «niuna nazione polita potrebbe sostenersi e marciare alla sua grandezza e felicità, senza la forza d'un governo».[17] Gli altri elementi fondamentali della teoria genovesiana erano costituiti dal suolo, dal clima, dal numero di abitanti e dall'industria[18] L'importanza che le istituzioni rivestivano nella vita civile ed economica è ribadita più volte nel corso dei lavori di Genovesi, così come viene grandemente sottolineata l'importanza dell'agricoltura e della manifattura[19] Il programma di sviluppo di Genovesi richiedeva necessariamente l'intervento dello Stato, mediante una strategia di modernizzazione dall'alto: elemento questo fondante delle politiche di sviluppo nell'Italia del secondo dopoguerra. Come Rosario Palatano riporta in un suo interessante volume: « [...] nel sistema di economia civile genovesiano, [...] l'azione individuale poco può fare senza un'adeguata sistemazione del vivere civile. Da qui la sua insistenza sul termine di economia civile, come a sottolineare l'inscindibile legame tra le istituzioni e la vita economica. L'analisi economica è per Genovesi solo una componente, seppure importante, della complessa arte di governo. L'indagine sulle cause della ricchezza delle nazioni non può prescindere quindi dal ruolo essenziale dello Stato, a cui è affidato un compito pedagogico nel definire lo schema di incentivi in cui si deve muovere l'azione individuale»[20] L'approccio vincente nell'organizzazione economica e sociale per Genovesi è quello che proviene dall'alto, da cui discendono, a cascata, effetti positivi per tutti i settori dell'industria e del commercio. Stessa visione in seguito ripresa da Chalmers Ashby Johnson, nel suo Developmental State (stato promotore dello sviluppo)[21].

Genovesi teorizza un'economia di contenuti più che di relazione, di sostanza più che di forma. Un'economia civile che pone alla base un modello top-down più che bottom-up; un'idea ben precisa di sviluppo e ideali su cui a posteriori si possono costruire relazioni funzionali agli obiettivi: in pratica la ricerca del bene e della felicità collettiva. Si deve rifiutare qualunque tentazione di conciliare i valori del cristianesimo con quelli del liberismo: quest'ultimo ha la sua radice culturale più profonda nel darwinismo sociale, dove a vincere la competizione è solamente il più forte. Si deve rifiutare qualunque tentazione di adottare come sistemico l'approccio minimalista anche in campo economico (in ambito finanziario esso è ben rappresentato dal microcredito). Si deve rifiutare qualunque tentazione di interpretare la realtà in modo intimistico, rimanendo schiavi di un fatalismo che ha più elementi in comune con l'ascetica orientale che con il cristianesimo. Tutto ciò conduce solo ad una frammentazione sociale, non efficiente e non efficace, con nessuna capacità di costruire ed influire sulla Storia. Il divide et impera dei romani deve rimanere anche oggi un monito in ogni ambito della vita sociale.

Un esempio concreto: le infrastrutture.

«E di vero la scarsezza degli abitanti in un suolo quanto si voglia fertile ed amato dal cielo, è sempre la principal causa della sua miseria. L'uomo è la più preziosa derrata della terra, dice il savio Melun. Questa dunque dagli amatori della pubblica felicità, e da' governatori del genere umano, è prima più d'ogni altra da coltivarsi, perciocché tutte le altre non hanno prezzo che per questa.» (Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, di A. Genovesi, Giovanni di Simone, Napoli - 1753)

«Noi triplicheremo la popolazione di questo Paese nei prossimi sessanta o settanta anni e noi vogliamo che quelli che verranno dopo di noi abbiano la stessa ricca eredità che noi troviamo ora negli Stati Uniti. E vedo una stretta correlazione tra la forza degli Stati Uniti qui all'interno della nazione e la forza degli Stati Uniti nel mondo. C'è un grande progetto di sviluppo naturale qui negli Stati Uniti, che ha avuto a suo modo un grande effetto sulla posizione, il prestigio e l'influenza degli Stati Uniti quasi su ogni altra cosa che abbiamo fatto. Sapete cosa è? È la Tennessee Valley.»[22] (John Fitzgerald Kennedy, 26 Settembre 1963, Salt Lake City)

Sull'onda della nostra vena metaforica, potremmo paragonare le infrastrutture al sistema circolatorio di un tessuto, che con la sua molteplice ramificazione porta nutrimento ed ossigeno ad ogni singola cellula. Così è per le infrastrutture, che hanno la funzione di far circolare efficacemente (in relazione ai tempi e le esigenze delle economie avanzate) merci, persone e idee. E maggiormente si sviluppa la popolazione in numero e in civiltà, maggiore è la richiesta di infrastrutture sempre più avanzate, ramificate, efficienti. Le infrastrutture favoriscono lo sviluppo economico e demografico dei territori che attraversano; facilitano la distribuzione geografica delle attività produttive; prevengono la formazione di grandi agglomerati urbani; rendono appetibile un territorio agli investimenti; moltiplicano le possibilità di business; abbattono i costi per le imprese; favoriscono i flussi turistici. Nel tentativo di conciliare un approccio globale con quello locale (tentativo riassunto nel neologismo: glocal), anche qui emergono forti contraddizioni. Accanto a slanci solidaristici di unità tra popoli (o proclami di slanci...), si vede prevalere ancora il localismo, confondendo perlopiù differenti piani. La battaglia portata avanti nei mesi scorsi dagli attivisti della NO TAV o le resistenze contro la realizzazione del ponte sullo stretto rappresentano un fulgido esempio. Da un lato vi sono gli interessi nazionali legati a un sistema moderno ed efficiente di trasporto, con i vantaggi sopra elencati, dall'altra gli interessi particolari di alcuni abitanti (in verità pochi) spalleggiati e fomentati da anarchici e ambientalisti (in verità molti), che vedono nella TAV l'ennesima sconfitta del loro fallimentare modello di decrescita. Non staremo qui a dare nel dettaglio le motivazioni tecniche ed economiche dell'essenzialità di un'opera come l'alta velocità, già altri hanno ben spiegato tali ragioni[23] Come MoviSol vorremmo rendere evidenti gli aspetti politico-economici, cosa che abbiamo fatto anche di recente, mediante alcuni articoli sul tema.[24]

Da una parte dunque vi è l'interesse generale della collettività, lo sviluppo, la creazione di nuovi posti di lavoro, la modernizzazione del Paese, i collegamenti con il resto dell'Europa: l'approccio di sviluppo genovesiano. Dall'altra gli interessi egoistici (NIMBY) e ideologici (decrescita) di minoranze sapientemente guidate e istruite: l'approccio del minimalismo e marginalismo economico sociale di chi sogna un ritorno a "piccole comunità rurali a chilometri zero". Per costoro le infrastrutture da prediligere eventualmente sarebbero quelle locali: ma quest'ultime non sono e non dovrebbero essere messe in competizione con le grandi infrastrutture. Le une sono funzionali alle altre e sono su piani diversi in termini di sviluppo potenziale e di...capitoli di spesa! Difatti un altro tema predominante, ultimamente molto popolare tra i sostenitori NO TAV, è quello della disparità tra i costi della TAV da una parte e i tagli del governo dall'altra. Obiezione chiaramente strumentale. Quei fondi anche se risparmiati non andrebbero alle famiglie, non sarebbero stanziati per salari o pensioni, ma andrebbero a pagare eventualmente gli interessi sul debito pubblico o impiegati sottoforma di prestiti alle banche nel tentativo di salvarle dal fallimento. Dove sono finiti i 12 miliardi di euro recuperati dall'evasione fiscale?

Le infrastrutture (così come la TAV), garantiscono investimenti e lavoro, oltre a portare grande beneficio per il sistema industriale e commerciale italiano. Gli investimenti in infrastrutture rappresentano una parte essenziale di una manovra anti-ciclica e andrebbero estesi, non affossati. L'alternativa è la difesa ad oltranza e l'impoverimento.

Cosicché anche il dibattito sulle infrastrutture può essere inquadrato nell'ottica più generale di un "conflitto" tra globalità intesa come interesse nazionale e localismo inteso come difesa dell'interesse particolare, circoscritto. La frammentazione, ripetiamo ancora una volta, non garantisce quell'efficienza e quella coordinazione che fungono da effetto moltiplicatore dell'azione umana in tutte quelle scienze e discipline fondamentali per la sussistenza e lo sviluppo della civiltà umana. Il trasferimento delle funzioni e del potere decisionale su base territoriale fa perdere necessariamente una visione globale dei processi politico-economici su scala globale. La regionalizzazione della Cassa del Mezzogiorno ha distrutto quello che per più di venti anni è stato il motore principale dello sviluppo del Mezzogiorno, conducendo al clientelismo e allo sperpero. La regionalizzazione del sistema sanitario nazionale ha fatto esplodere i costi e favorito fenomeni di corruzione (come anche le recenti cronache riportano). Il principio di sussidiarietà troppe volte é stato invocato e strumentalmente utilizzato per favorire la disgregazione degli stati nazionali.

Già molti sono stati i suicidi in Italia, a causa di questa crisi economica che ben rappresenta un'applicazione delle teorie della decrescita (siamo in piena recessione). Proprio oggigiorno che i forti venti della speculazione finanziaria, del grande capitale in cerca di rendite, spazzano l'Europa, ci viene richiesto di abbassare le protezioni sociali, di deregolamentare, di liberalizzare, di privatizzare, di delegare. Non ne sentiamo sinceramente alcuna necessità. Alcuna necessità di morire per un'ideologia. Di morire di sussidiarietà.

Andrea Pomozzi
Movimento Internazionale per i Diritti Civili - Solidarietà

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Note:

[1] - Si fanno governi in pochi giorni e senatori a vita in una notte.

[2] - Un caso paradossale e gravissimo è la ratifica dell'ESM e del Fiscal Compact da parte del Senato della Repubblica Italiana. Maggiori informazioni si possono trovare qui: "L'Italia aderisce al patto suicida - approvati l'ESM e il Fiscal Compact" e qui "Smascherati i poteri eccezionali dell'ESM".

[3] - Una interessante trattazione è quella fatta da Enzo Pennetta: "UE: la demolizione controllata degli Stati nazionali"

[4] - Tale saldatura attorno a molti temi, in realtà non rappresenta una novità e trova la sua radice nei movimenti di lotta studentesca ed operaia a fine anni sessanta. Il materialismo dialettico marxista trovò una sponda nelle correnti di pensiero cattolico che facevano dell'egalitarismo a prescindere e della teologia della liberazione i principi primi ispiratori.

[5] - I numerosi "interventi di pace" dell'esercito americano e della NATO sono ispirati da un approccio del diritto internazionale che merita un'analisi più approfondita, non possibile qui per motivi di spazio.

[6] - Il Trattato in sostanza prevedeva la pace tra le nazioni sovrane ed esigeva che ciascuna di esse si sviluppasse appieno, considerando come proprio interesse lo sviluppo degli altri e viceversa.

[7] - Un socio un po' più moderno di tale società è Tony Blair. Un testo molto interessante che ricostruisce storicamente i legami tra alcuni dei personaggi citati (e molti altri) è: "Inchiesta sul darwinismo, come si costruisce una teoria", di Enzo Pennetta (ed. Cantagalli, 2011).

[8] - Felice espressione del professor Giuseppe Guarino durante un suo brillante intervento ad una conferenza sull'Europa: "Il lungo e sorprendente miracolo italiano".

[9] - Fonte: "Piccolo non è bello nel mondo di oggi bisogna pesare"

[10] - Ad esempio si parla di "modello italiano" fatto di piccole imprese, artigiani, cooperative, terzo settore, etc...: "Il modello italiano"; a cui addirittura si risponde con argomenti liberisti che vogliono accanto al termine sussidiarietà quello di poliarchia (una forma di governo in cui il potere è in mano ad una classe "responsabile" di uomini ...un'oligarchia?): "Sussidiarietà e poliarchia direttrici per lo sviluppo".

[11] - Vedi: "Con le reti d'impresa si fa sviluppo".

[12] - Un libro che merita lettura è sicuramente: "La Strada Dritta", di Francesco Pinto (Ed. Mondadori, 2011).

[13] - Una brevissima sintesi del concetto è espresso qui: "Come funziona, davvero, l'economia fisica?".

[14] - Paolo Savona, "Eresie, esorcismi e scelte giuste per uscire dalla crisi", ed. Rubbettino (2012).

[15] - Ad esempio James Galbraith: "Galbraith, Jr.: Un pugno di burocrati vuol distruggere il Welfare State".

[16] - Antonio Genovesi (1713- 1769) fu un abate, economista, titolare della prima cattedra di Commercio e Meccanica in Europa e uno dei padri fondatori del pensiero economico moderno.

[17] - "Delle lezioni di commercio, o sia d'Economia Civile, da leggersi nella Cattedra Intieriana, Parte Prima per il primo semestre", A. Genovesi, Fratelli Simone – Napoli (1765)

[18] - "Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze", di A. Genovesi - Giovanni di Simone (Napoli, 1753)

[19] - Per una analisi e una trattazione del pensiero di Genovesi si veda: "Genovesi", di Rosario Palatano, Ed. LUISS University Press (2012).

[20] - "Genovesi", di Rosario Palatano, cit.

[21] - Chalmers A. Johnson: MITI and the Japanese Miracle (June 1, 1982 ed. Stanford University Press)

[22] - NAWAPA XXI: Videodocumentario: "NAWAPA 1964". LA Tennessee Valley è stato un colossale progetto di infrastrutturazione della Valle del Tennessee voluto da Franklin Delano Roosevelt.

[23] - Ottimi articoli si possono trovare qui: "Torino-Lione: le motivazioni di una scelta!" e qui: "TAV in breve - 2. Tra Newton, clima e rumore...".

[24] - "I lanzichenecchi della contessa Dall'Onda scaldano i motori" e recentemente: "150 anni di NO TAV".

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