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LaRouche sull'economia, l'impeachment e il Medio Oriente

  Webcast di LaRouche   
LaRouche durante l'incontro seguito su internet in molti paesi del mondo.

20 novembre 2006 – Nell'incontro svoltosi a Washington il 16 novembre, trasmesso internazionalmente in diverse lingue su internet (registrazione completa ), il fondatore dell'EIR Lyndon LaRouche ha affrontato i temi centrali del crac economico in corso, delle prospettive della nuova maggioranza al Congresso e come affrontare il deterioramento della situazione in Iraq. Di seguito alcuni stralci su questi argomenti:
“Ci sono tre argomenti che voglio in particolare sottoporre alla vostra attenzione per poi tornare al principale, che è l'economia.
“In primo luogo saprete che Bob Rubin, l'ex segretario al Tesoro, ha recentemente fatto delle osservazioni (e qualcosa di simile è stato anche detto da altri) nelle quali, seppure non sia voluto andare fino in fondo, in sostanza ha fatto capire bene che siamo ormai alle prese con una crisi immediata, un crollo immediato del sistema monetario e finanziario, cosa che aveva già indicato da qualche tempo. Egli non ha proposto rimedi, ma ha solo indicato la necessità di affrontare una tale minaccia, a cui fa riferimento, seppure molto sottotono. [1]

“Non lo critico per questo, perché Bob Rubin ha due aspetti: è un professionista in campo bancario, qualifica che gli procurò l'incarico a Segretario al Tesoro. E' una persona in gamba, intelligente e coraggiosa, ma è un banchiere, non un politico. Non è un comandante di un esercito sul campo. Io sono più portato per quest'altra professione, come sapete. ... Dunque non contesto il fatto che egli abbia deciso di tenersi molto sottotono nel parlare del problema, e di non voler indicare la soluzione, sempre se crede di averne una. Infatti il suo ruolo è di mettere in moto le cose, mobilitare la gente, per così dire, affinché si renda conto che non c'è nessuna 'happy economy', ma solo un disastro in cui l'80 o fors'anche il 90 per cento delle famiglie, nelle fasce medio-basse del reddito, versa in grosse difficoltà. E in cui ogni stato nazionale dell'Europa occidentale e centrale è in fase di disintegrazione. E in cui, sebbene vi sia qualche segno di ripresa in alcune parti del Sud America la miseria continua a dominare. La situazione in Africa è indescrivibile. E se gli Stati Uniti affondano, come indicherò meglio più avanti, anche la Cina andrà a fondo e lo stesso dicasi dell'India e del resto del mondo. Travolti da una reazione a catena, non finiranno in una depressione ma in una crisi da sfascio generale, paragonabile a ciò che avvenne in Europa nella metà del XIV secolo, un periodo in cui la metà dei comuni scomparvero dall'Europa, insieme ad un terzo della popolazione, nel giro di una generazione.
“Ci troviamo ora in una situazione che può trasformarsi in una minaccia globale. (…) “Una situazione simile esiste anche a proposito del ritiro dall'Iraq. Adesso, mi pare di capire, siamo tutti favorevoli al ritiro dall'Iraq. Occorre pertanto preoccuparsi che questo ritiro sia effettivamente concepito in maniera seria. Non è uno scherzo, o un 'vediamo', ma piuttosto un impegno serio, e questo significa che non si tratta semplicemente di sloggiare. La stessa osservazione è stata fatta da generali di rango, che sono stati contrari alla guerra: occorre stabilire un processo tramite il quale è possibile disimpegnarsi nel modo migliore, senza aumentare il caos già esistente, creato dall'amministrazione Bush. Pertanto concordo sia con coloro che dicono 'ritiro immediato' sia con coloro che dicono 'occorre un piano per il ritiro che sia confacente alla situazione'.
“C'è un'altra questione della stessa natura: alcuni democratici, adesso che controlliamo il Congresso, non dicono 'impeachment'. Come mai? Essi vogliono l'impeachment così come lo vogliamo noi. Come mai allora - oltre alle teste vuote come Joe Lieberman, che è stato eletto dal partito repubblicano ma dice di essere democratico - non lo chiedono? Quelli come l'on. John Conyers, ad esempio, che al Congresso presiederà la Commissione che dovrebbe avviare la procedura di impeachement, vi direbbero che nel caso di un processo al presidente nel Congresso, essi sono chiamati a ricoprire il ruolo del giudice e della giuria, quindi non possono farsi promotori dell'accusa. La procedura dev'essere condotta in piena regolarità, perché si rischia di incappare in vizi procedurali, compromettendo così il risultato voluto.
“Invece noi non siamo al Congresso, non siamo né al Senato né alla Camera dei Rappresentanti, ed è dunque nostra responsabilità richiedere espressamente l'impeachment, ben coscienti che questo è necessario. Numero uno: Cheney. Allora, noi spingiamo e loro processano. E finché i processi che fanno corrispondono alle nostre spinte dovrebbe andare tutto bene.
“Questa è la natura e il ruolo della leadership e la funzione del governo: occorre una prospettiva strategica su ciò che occorre fare e comprendere quali problemi occorre risolvere. Ma è necessario anche rispettare la procedura, in modo che procedendo verso l'obiettivo che ci proponiamo di raggiungere non distruggiamo l'obiettivo stesso...
“Parliamo adesso dell'altro problema importante, il fatto che Bob Rubin una soluzione non ce l'ha. Nessuna delle principali autorità finanziarie ed economiche negli Stati Uniti, o in Europa Occidentale, o nel mondo in generale, ha un'idea di come risovere la crisi finanziaria e monetaria internazionale: nessuno! Io invece ce l'ho! In questa situazione pertanto spetta a me dire con chiarezza qual è la situazione ed identificare la natura del problema a cui applicare il rimedio, la medicina capace di curare il malato. Se non facciamo ciò che spiegherò, se non compiamo i passi necessari, ogni tentativo di gestire la crisi non farà altro che aggravarla. E se aggraviamo le cose ora, in una crisi che è molto peggiore di quella del periodo 1929-1933, rischiamo una nuova epoca buia...
“Spetta a me dire ciò che dev'essere fatto perché non ci sono proposte migliori. Bob Rubin non sa che cosa occorre fare, e lui è il più ferrato su questi temi, negli Stati Uniti. Né lo sa l'ex presidente Clinton, o i leader parlamentari: nessuno di loro sa che cosa fare. Hanno le migliori intenzioni di fare qualcosa e spetta a me dire loro qual è la soluzione e che cosa fare.
“E speriamo che essi vorranno dirsi d'accordo per il bene di tutti noi e delle generazioni a venire”.
Moderatore: “La prima domanda riguarda la strategia. Ce la rivolge un gruppo di ufficiali in congedo con i quali ci consultiamo, in particolare nelle ultime settimane. Essi chiedono: «Mr. LaRouche, presto dovrebbe essere consegnato il rapporto della Commissione Baker-Hamilton. Alcuni di noi negli Stati Uniti si preoccupano che le considerazioni di politica interna finiscano per prevalere sulle migliori considerazioni strategiche nella questione irachena, dove la crisi sta rapidamente degenerando in una guerra civile o peggio. Come risponderebbe lei a tali preoccupazioni e come aggiornerebbe o modificherebbe la sua dottrina per il Sudovest Asiatico da lei espressa nel 2004?».”
LaRouche: “Non si tratta di una questione semplicemente militare ma eminentemente strategica. Siamo giunti al punto in cui una guerra generale non si può combattere. Siamo nell'epoca nucleare e le idee più tradizionali del combattimento sono superate, valgono solo in certi casi specifici di difesa, dove difendendoti non vuoi protrarre il conflitto ma cerchi di concluderlo il prima possibile. D'altro canto, un altro motivo per cui una guerra non si può combattere è quello della guerra irregolare, la guerra asimmetrica, come vediamo. E non c'è forza militare capace di un'occupazione permanente contro la guerra assimetrica. Gli israeliani hanno preso una bella batosta in Libano, sconfitti dalla guerra asimmetrica. Hanno fatto bombardamenti d'inferno con l'aviazione, ma non si vive in un jet tutta la vita. Cos'è accaduto all'Unione Sovietica in Afghanistan? Guerra asimmetrica. Agli Stati Uniti in Indocina? Guerra asimmetrica. E in Iraq? Guerra asimmetrica aggravata. Complicata da quell'idiota che hanno messo lì nel momento in cui gli USA avevano preso il controllo della situazione, e ha vanificato l'accordo con i militari iracheni e con il partito Ba'ath. In condizioni normali bastano le regole militari a suggerire le cose giuste, Bremer invece ha fatto le cose sbagliate. Accettare la resa, adottare le forze del paese appena sconfitto, affidare a loro la gestione del paese in base ad un accordo mirante alla pace. Non cercare di cambiare il regime. E' stato invece il cambiamento di regime che ha reso la guerra asimmetrica inevitabile. Adesso siamo in fondo a questo vicolo cieco. Perdiamo il controllo in Palestina e in Israele. La situazione diventa sempre più impossibile. Sta per scoppiare una guerra tra sunniti e sciiti nella regione, che porterà la destabilizzazione al massimo.
“Occorre dunque elevarci ad un livello superiore a quello delle semplici questioni militari. Certo, abbiamo bisogno di una exit policy ... Questo significa che occorre coinvolgere l'intera regione dell'Asia Sudoccidentale in una strategia complessiva mirante ad un ritiro delle truppe. La cosa non è possibile finquando che questo presidente sarà al potere. I motivi sono due: l'apparato di Bush e Cheney ha affondato le sue radici troppo profondamente nelle istituzioni di governo, per cui occorrerà un'attenta opera di derattizzazione. Sono lì ormai da sei anni, hanno disseminato il loro veleno, hanno rovinato le istituzioni, hanno distrutto le idee, hanno piazzato i loro agenti dappertutto. La questione è che gli Stati Uniti non saranno rispettati fin quando Bush sarà presidente e fin quando Cheney continuerà ad esercitare la sua influenza. Se gli Stati Uniti vogliono fare qualcosa nel Sudovest Asiatico occorre cacciare costoro dalla Casa Bianca e disporre di un portavoce degli Stati Uniti a cui la gente può credere.
“Io sto esplorando le opzioni diplomatiche possibili e ho già un'idea della situazione. Occorre ad esempio negoziare direttamente con l'Iran, e non imporre condizioni. Occorre negoziare rapporti diplomatici complessivi con l'Iran perché così facendo si cambia la dinamica. Occorre rivolgersi ai turchi e venire loro incontro perché in un certo senso siamo noi a creare il problema del Kurdistan. Occorre dunque rendere la Turchia partecipe della soluzione del problema. Dobbiamo rimettere in riga Israele, che deve accettare questo accordo con la Palestina, subito e basta! In diplomazia occorre in questo caso tutta la risolutezza che occorre sul campo di battaglia. Se sei abbastanza risoluto sulle cose giuste, e nel modo giusto, puoi vincere la guerra senza combattere. Per questo processo di disimpegno occorrono le carte giuste. Da quello che so invece, adesso la situazione degenera talmente che non c'è nessuno a cui si può affidare una procedura che in teoria è così semplice. Adesso non c'è modo di reclutare forze della regione con cui concordare una procedura di disimpegno delle forze USA dall'Iraq. Ci diranno semplicemente 'attaccatevi'. E l'alternativa all'attaccarsi è fare quello che propongo, che è la cosa più coerente da fare in una situazione dinamica, e non una situazione meccanicistica cartesiana. Occorre controllare le dinamiche della regione. Ritengo che sia una cosa possibile, con il contributo della Russia, della Germania - con la Francia è più difficile - con la Turchia, e negoziare un accordo diplomatico aperto generale con l'Iran. Si può inoltre ricorrere ai contributi dell'India e del Pakistan. Occorre poi evitare di creare un altro imbroglio nel Darfur, così come stanno cercando di fare taluni. Occorre impedire la destabilizzazione dell'Egitto, e per spingere sull'acceleratore occorre una bella cospirazione tra alcune potenze. E poi la facciamo ingoiare all'attuale governo israeliano: una pace tra Palestinesi, Arabi e Israeliani. E' possibile, ma c'è il rischio che nel frattempo quegli squilibrati comincino a lanciare le bombe, in quella che sarebbe un'operazioni suicida contro l'Iran, e questo scatenerebbe daccapo un nuovo inferno ancora più vasto. Questa è la situazione.
“Essi hanno dunque ragione nel valutare la situazione, hanno ragione nel valutare le conseguenza di un semplice ritiro. Ma quando si comincia a definire un'alternativa ci rendiamo conto che abbiamo una bella gatta da pelare. Occorre chiarire che con gli attuali presidente e vicepresidente, con gli indirizzi politici vigenti, non è possibile. Per questo, dall'altra parte si prende la proposta di Baker-Hamilton. In essa si toccano fattori importanti da considerare ed in tal senso è positiva. Ma siamo disposti ad andare fino in fondo per vincere la guerra, come cosa ben diversa dalla semplice pretesa di fare il gesto di vincere la guerra? Occorre avere il coraggio di studiare la questione fino in fondo. Io credo che si possa fare e se fossi presidente lo farei. Ma non lo sono, e questo è il problema”.



Rubin sulla minaccia al dollaro USA

[1] Robert Rubin, ex segretario al Tesoro di Clinton, ha lanciato un monito sulla “grave minaccia all'economia USA e all'economia globale”. Parlando all'Economic Club di Washington, il 9 novembre, Rubin ha dichiarato che occorre affrontare il problema dell'aumento del deficit, dell'aumento della spesa pensionistica e sanitaria, e della dipendenza dai prestiti dall'estero, pensando con urgenza a “una combinazione di disciplina nelle entrate e nelle spese”. Per quanto concerne le obiezioni contro un aumento delle tasse, che metterebbe in ginocchio l'economia, Rubin ha affermato: “Ritengo che se dovessimo aumentare già ora le tasse, gli effetti negativi sull'economia saranno probabilmente attorno allo zero”.
Solo qualche giorno più tardi, il 14 novembre, Rubin ha affermato che l'incapacità di arginare la crescita del deficit del bilancio USA potrebbe far innervosire le banche centrali, gli hedge funds e chiunque abbia acquistato titoli del Tesoro USA. “Sembra quasi inconcepibile che ciò possa continuare a tempo indefinito”, ha esclamato Rubin in una videoregistrazione presentata ad un banchetto della Concord Coalition. A quell'incontro era presente anche l'ex presidente della Federal Reserve Paul Volcker, che prendendo la parola ha confermato i timori di Rubin aggiungendo che le esigenze di contrarre nuovo debito degli USA rappresentano un rischio di “crisi”. “E' incredibile come la gente continui a tenere titoli in dollari per così tanto tempo. Ad un certo punto si arriverà alla situazione in cui la gente ne avrà avuto abbastanza”.
In un discorso al congresso annuale della New York Bankers Association il 10 novembre il Comptroller of the Currency John C. Dugan ha dichiarato che i rischi nella gestione dei derivati potrebbero “provocare interruzioni distruttive dei mercati che colpiscono la fiducia del pubblico nelle istituzioni finanziarie in generale”. Ha osservato che una banca su sei nel paese tratta titoli derivati e che l'esposizione creditizia complessiva ha raggiunto i 199 miliardi di dollari. Dugan ha quindi spiegato come “l'esposizione dei derivati sul credito rappresenti un rischio reale e molto significativo”, notando tra l'altro che cinque grandi istituti bancari, tutti statunitensi, posseggono il 97% dei contratti derivati aperti, il cui valore nozionale ammonterebbe a 119 mila miliardi di dollari.
Anche l'ex ministro dell'Economia italiano Giulio Tremonti è intervenuto sul tema del crac globale. In un'intervista molto letta, pubblicata sul Corriere della Sera del 12 novembre, Tremonti così si esprimeva sull'economia USA: “Le ipotesi sono due. La prima: il passaggio dal boom allo sboom non ha causato il collasso, perché il sistema finanziario è ben equilibrato, ha assorbito la crisi e può ripartire. La seconda è avanzata da molti siti economici, che ospitano previsioni di crisi strutturale, tipo 1929. Io spero nella prima ipotesi, ma temo la seconda”


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