ECONOMIA

Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietà

ECONOMIA

  

 


[Solidarietà, anno IX n. 1, aprile 2001]


La paceattraverso lo sviluppo

Lyndon LaRouche ospite in Sudan alla conferenza dei Paesi della Valle del Nilo

LA PACE ATTRAVERSO LO SVILUPPO NELLA VALLATA DEL NILO NEL CONTESTO DI UN NUOVO ORDINE ECONOMICO MONDIALE GIUSTO” è stato il titolo di una conferenza di quattro giorni tenutasi a Khartoum, in Sudan, tra il 14 ed il 17 gennaio, sotto il patrocinio del Centro per gli studi strategici del Sudan, del ministero dell’Informazione e della Cultura e dello Schiller Institut tedesco. L’avvenimento rappresenta un passo importante per rafforzare l’intesa tra i paesi della regione verso una pace all’insegna della cooperazione. Tra i partecipanti, due rappresentanti della Facoltà di Economia e Scienze Politiche del Cairo, il vicedirettore dell’Istituto Internazionale per la pace e lo sviluppo dell’Etiopia, oltre ad esponenti del governo sudanese ed intellettuali.

Lyndon LaRouche ha tenuto due discorsi, trattando principalmente il tema della Nuova Bretton Woods. Il docente di economia nigeriano Sam Aluko e il suo collega prof. Ode Ojuwo (rispettivamente quinto e quarto da sin. nella foto)hanno tenuto insieme a Uwe Friesecke dell’EIR, una tavola rotonda per illustrare il fallimento completo della globalizzazione. L’esempio africano, e quello nigeriano in particolare, dimostrano chiaramente come “non si possano fare compromessi con il FMI e sopravvivere economicamente”.

L’importanza delle infrastrutture continentali per lo sviluppo dell’Africa è stata sottolineata da diversi relatori. Il dott. Gabir Said Awad (secondo da sin.), dell’Università del Cairo, ha parlato del Ponte di sviluppo eurasiatico, mentre la sua estensione in Africa attraverso l’Egitto è stato il tema trattato dal collega prof. Hamdy Abden Rahman (quinto da destra). Il direttore delle ferrovie sudanesi ha illustrato il programma di sviluppo dei trasporti ferroviari e il ministro sudanese dell’irrigazione e delle risorse idriche ing. Kamal Ali Mahamed ha parlato degli enormi vantaggi comuni di una razionalizzazione e di un migliore sfruttamento dell’acqua del Nilo, i cui benefici, che interessano soprattutto l’agricoltura, sarebbero di portata continentale e persino mondiale.

Nell’ultima seduta è stato fatto il punto sul processo di pace in Sudan. Helga Zepp-LaRouche ha quindi tenuto un discorso sul tema della pace attraverso lo sviluppo.


    Il fallimento economico e politico
    della globalizzazione in Africa

    Discorso di Uwe Friesecke, EIR
    Khartoum, 14-17 gennaio 2001

    LA SITUAZIONE in cui versa il continente africano dimostra chiaramente il fallimento completo delle prescrizioni che FMI e Banca Mondiale impongono da oltre vent’anni: le cosiddette riforme di mercato e gli aggiustamenti strutturali. La globalizzazione ha rovinato indistintamente tutte le economie africane. Le sofferenze che ciò ha comportato per la stragrande maggioranza delle popolazioni africane come conseguenza di ciò sono una inequivocabile condanna dell’incompetenza e dell’ingiustizia che caratterizzano il sistema mondiale così come è andato degenerando dopo il 1971, un sistema che i governi del G7 vorrebbero mantenere comunque ad ogni costo.

    Secondo l’ultimo rapporto dell’UNCTAD sui paesi meno sviluppati (LDC), il numero dei paesi estremamente poveri è quasi raddoppiato tra il 1974 ed il 1998, passando da 25 a 48. Di questi 33 su 48 sono paesi africani. Il rapporto del 2000 dell’UNICEF riferisce che dei 60 paesi in cui nel 1998 è stato registrato il più alto tasso di mortalità infantile (sotto i cinque anni), 41 paesi sono africani.

    Se queste cifre sono la conseguenza degli indirizzi generali dell’economia mondiale, chi dobbiamo ritenere responsabile di questa situazione?

    Le trasformazioni nell’economia mondiale degli ultimi 25 anni sono forse state decise nel Lagos, a Nairobi, a Khartoum o ad Adis Abeba? In quale sede sono stati fissati i tassi d’interesse, le condizioni di prestito e i prezzi delle materie prime sui mercati mondiali? Non certo in Africa, ma piuttosto a Londra, a Washington e a Parigi, mentre gli altri paesi del G7 hanno sempre finito per mettersi in riga.

    La mancanza di sviluppo, i livelli di vita sempre più miseri in molti paesi, lo sfascio crescente del sistema sanitario e di quello educativo, e il dilagare apparentemente incontrollabile di malattie vecchie e nuove, come la malaria e l’AIDS, sono il risultato di un’austerità brutale che la politica del FMI e della Banca Mondiale hanno imposto ai paesi africani dalla metà degli anni Settanta.

    I paesi africani hanno ottenuto l’indipendenza formale nel corso degli anni Cinquanta, ma per quanto riguarda le loro economie non hanno mai potuto raggiungere l’indipendenza e la sovranità effettive. Il vecchio sistema coloniale, che ha condannato l’Africa ad esportare materie prime al prezzo più basso possibile sui mercati mondiali, che ha ostacolato la costruzione delle infrastrutture per l’economia della regione e la creazione di un’agricoltura e un’industria africane, è continuato anche sotto il regno del FMI e della Banca Mondiale, fino ad oggi. Gli anni Ottanta sono stati giustamente definiti il decennio perduto.

    Ma chi sperava che all’inizio degli anni Novanta, con la fine della Guerra Fredda e con la fine dell’Apartheid in Sud Africa, si determinassero finalmente delle condizioni più favorevoli per lo sviluppo africano, ha dovuto purtroppo ricredersi. Lo sfruttamento economico dell’Africa è continuato a pieno ritmo, mentre i paesi africani sono stati colpiti da un altro aspetto della politica strategica occidentale: la strategia della tensione a scopo geopolitico. Sono stati fomentati conflitti politici insolubili, spesso con una dimensione etnica, che hanno messo gli africani gli uni contro gli altri. Questo ha trascinato il Congo e gran parte dei suoi vicini in ciò che il Financial Times e l’ex segretario di stato USA Albright hanno definito, compiacendosene, “la prima guerra mondiale dell’Africa”.

    È possibile dimostrare con la massima esattezza che lo scopo di questa strategia della tensione è quello di garantire la perpetuazione del saccheggio delle materie prime africane d’importanza strategica, e al tempo stesso di impedire che i governi africani possano usarle essi stessi per sviluppare le proprie economie. Questa è la politica della globalizzazione spinta alle sue conseguenze estreme: i governi e gli stati scompaiono, il potere passa nelle mani dei signori della guerra e dei loro mercenari, mentre il petrolio, i diamanti, l’oro, il legno ed i metalli strategici continuano a fluire copiosamente verso i mercati mondiali.

    Consapevoli di questi processi strategici, siamo convinti che sia necessario formulare un nuovo approccio pan-africano ad una politica economica e di sicurezza veramente sovrana per l’intero continente. Le strategie per lo sviluppo interno dei paesi e delle regioni continentali debbono essere abbinate ad iniziative capaci di trarre vantaggio dall’attuale disintegrazione del sistema finanziario mondiale. Il concetto di un nuovo ordine economico mondiale giusto, che fu così intensamente dibattuto negli anni del Movimento dei Paesi non Allineati, deve tornare al centro delle discussioni.

    Il fallimento dell’economia politica verso l’Africa

    I dati pubblicati di recente dalla Banca Mondiale nel rapporto “Can Africa claim the 21st Century” presentano un quadro della miseria generata dalle misure imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale nel corso degli ultimi 25 anni.

    Nell’Africa Sub-Sahariana il 40% della popolazione di 630 milioni, più di 250 milioni di persone, vive al di sotto del livello di povertà, che è fissato a livello mondiale con un reddito di un dollaro al giorno. Il rapporto riferisce che “il numero dei poveri è aumentato costantemente, per cui la percentuale africana del totale mondiale dei poveri è passata dal 25% al 30% nel corso degli anni Novanta”.

    Più di 250 milioni di persone non usufruiscono di acqua potabile. Più di 200 milioni non possono disporre di servizi medico-sanitari. Più di 2 milioni di bambini muoiono ogni anno prima di aver compiuto un anno di vita. In 39 dei 52 paesi africani, il tasso di mortalità dei bambini al di sotto dei cinquue anni è superiore ai 100 per mille. 1,1 milioni di persone, di cui tre su quattro sono bambini, muoiono di malaria, 1,5 milioni di tubercolosi, mentre altri 8 milioni vengono contagiati ogni anno dalla seconda di queste infezioni.

    La diffusione della malaria, come pure quella di altre malattie, era stata notevolmente ridotta negli anni Sessanta, ma recentemente è tornata a dilagare paurosamente. All’inizio del secolo il tasso era di 223 per 100.000 abitanti, nel 1970 era sceso a 107, ma oggi è risalito a 165.

    Si calcola che gli africani contagiati dall’AIDS siano circa 23 milioni. I decessi dovuti a questa infezione si aggirano intorno agli 11 milioni. Si ritiene inoltre che questa cifra rappresenti solo il 10% del totale delle perdite che l’AIDS finirà per infliggere al continente. Sono già 21 i paesi in cui più del 7% della popolazione ha contratto l’AIDS. Sono 8 milioni i bambini rimasti orfani a causa del morbo. Specialmente nei paesi dell’Africa meridionale, si teme che a causa dell’AIDS la vita media si accorci anche di 20 anni. E la minaccia si va allargando anche ai paesi come la Nigeria e l’Etiopia. In Africa l’AIDS ha assunto le dimensioni di una vera pandemia. I suoi effetti sono paragonabili a quelli della Grande Peste nell’Europa medievale.

    Come si è giunti a questo disastro economico e sociale?

    Dall’inizio degli anni Ottanta, sotto le pressioni del FMI e della Banca Mondiale, la maggior parte dei paesi africani ha dovuto accettare la politica degli aggiustamenti strutturali, le cui misure sono state inasprite a più riprese nel corso degli anni Novanta. Di conseguenza i governi africani sono stati costretti a pagare i debiti tagliando sui bilanci dei servizi sanitari e scolastici, a svalutare le proprie monete per esportare più materie prime, a tutto discapito dell’importazione di beni capitali, che erano della massima urgenza. Sono stati inoltre costretti a ridimensionare i servizi pubblici, ciò che ha comportato un incremento della disoccupazione, a privatizzare i beni nazionali, venduti a prezzi stracciati sul mercato deregolamentato, lasciando l’industria locale senza alcuna difesa. Questa politica delle cosiddette riforme liberiste ha aggravato la crisi del debito, ha reso impossibile gli investimenti per la realizzazione di grandi infrastrutture, ed ha prodotto l’impoverimento terribile che vediamo dilagare in tutto il continente.

    Specialmente quei paesi che FMI e Banca Mondiale elogiano maggiormente, presentandoli come “success story”, forniscono la prova più eloquente del fallimento della politica da questi dettata.

    Nello Zambia, dopo nove anni di democrazia e manovre economiche, l’80% dei 9,7 milioni di abitanti vive al di sotto del livello di povertà. La vita media è scesa dai 49 anni del 1992 ai 37 del 2000; tra il 1980 ed il 1998 la mortalità infantile è più che raddoppiata, passando dal 97 al 202 per mille. Lo Zambia paga più di 250 milioni di dollari l’anno di interessi, per un debito estero del totale di 7 miliardi di dollari.

    In Mozambico, dopo otto anni di riforme, il 70% della popolazione, in cifre 18 milioni di persone, si trova a vivere al di sotto della soglia di povertà, che corrisponde ad un reddito di appena un dollaro al giorno. Solo raramente operai ed impiegati arrivano a guadagnare il salario minimo, fissato per legge a 30 dollari mensili. Secondo la pubblicazione dell’ONU Africa Recovery, la popolazione rurale del Mozambico deve fare in media 46 chilometri a piedi per poter consultare un medico e 66 chilometri per raggiungere una scuola media. Le riforme hanno portato all’abolizione dell’assistenza sociale nelle città ed hanno causato la perdita di migliaia di posti di lavoro. Il Mozambico ha un debito estero di oltre 6 miliardi di dollari, su cui paga 125 milioni di dollari l’anno. Però se si dà retta agli indicatori macroeconomici, che segnalano una crescita annua del PIL di 10-12% dal 1997, il paese sarebbe in pieno boom economico. La Banca Mondiale, al colmo del cinismo, caratterizza il fenomeno come “crescita con la povertà”.

    I governi che hanno seguito le riforme del FMI sono stati anche costretti ad abolire l’assistenza medico-sanitaria e l’istruzione gratuite. Come era prevedibile il numero delle iscrizioni a scuola e delle cure ospedaliere è calato rapidamente.

    Dopo anni di questo trattamento infame, ci si chiede con quale faccia i funzionari del FMI e della Banca Mondiale possano ancora affermare che la loro priorità è ridurre la povertà e investire nella gente. Prima hanno appiccato il fuoco alla casa e adesso fanno finta di chiamare i pompieri.

    Il caso del Ghana

    Gli ultimi vent’anni della storia del Ghana dimostrano chiaramente che l’applicazione delle dottrine neo-liberiste non soltanto aggrava le condizioni di povertà, ma provoca dei cambiamenti strutturali che a lungo termine si rivelano ancora più nocivi e distruttivi.

    Dall’analisi dell’evoluzione dei settori economici, applicata rispettivamente ai periodi 1970-1975 e 1991-1995, risulta che le attività industriali sono retrocesse dal 19% al 14%, quelle agricole dal 52% al 42%, in favore dell’espansione dei servizi, passati dal 29% al 44%. L’economia del Ghana ha perso la capacità fisica di produrre. D’altra parte, il crollo della moneta (nel 1983, quando il governo di Rawlings assunse il controllo del paese con un golpe non proprio democratico, un dollaro costava 2,75 Cedi, oggi ne costa 6856) rende del tutto proibitiva l’importazione dei beni capitali necessari alla produzione. Così il Ghana viene a dipendere esclusivamente dalle sue esportazioni di oro, di legno e di cacao, nè arriva mai a produrre qualcosa in proprio, e a sviluppare i mercati interni, specialmente in anni come questi, in cui i prezzi delle materie sui mercati mondiali non fanno che calare. Come per molti altri paesi africani, il volume delle esportazioni è aumentato notevolmente, ma non è stato accompagnato da un corrispondente aumento degli incassi. In altre parole, il saccheggio è aumentato paurosamente.

    La trappola del debito

    Il debito dell’Africa Sub-Sahariana ammonta oggi a più di 220 miliardi di dollari. Se a questo aggiungiamo l’Africa settentrionale, il debito totale sale a 300 miliardi. Nel 1980 queste due voci erano rispettivamente di 60 e di 112 miliardi di dollari. Nel corso degli anni Novanta i paesi sub-sahariani hanno pagato in media 11 miliardi di dollari all’anno, e quelli dell’Africa settentrionale altri 13,4 miliardi di dollari. In un decennio l’Africa ha pagato circa 250 miliardi sul suo debito estero, ma alla fine si è ritrovata ancora più indebitata di quanto non lo fosse in partenza. Questo meccanismo del debito è la forma peggiore di schiavismo e costituisce un crimine contro l’umanità, poiché, come illustra questo esempio, i paesi africani sono costretti a pagare il debito con la vita delle loro popolazioni.

    Oggi le istituzioni finanziarie parlano tanto dell’urgenza di mitigare e ridurre il fardello del debito. L’iniziativa è chiamata HICP. Ma a che potrà giovare, se un paese che riceve questo sgravio finisce poi col pagare più di prima? Un caso concreto di questo è lo Zambia. Nel 1999 ha pagato 136 milioni di dollari, quest’anno dovrebbe pagarne 225 e l’anno prossimo, dopo gli sgravi, 235 milioni di dollari. Ritengo opportuno dare a questa faccenda il nome che si merita, e cioè quello di una gigantesca truffa. Non c’è un briciolo di onestà nelle intenzioni dichiarate dalle istituzioni sopranazionali di voler far qualcosa per ridurre la povertà.

    Il disastro economico africano viene indicato con l’espressione eufemistica di “marginalizzazione”. Gli effetti congiunti dell’onere del debito, dei programmi di aggiustamento strutturale e del continuo peggioramento delle condizioni commerciali per le principali voci di esportazione hanno vanificato tutte le speranze accese dai leader dell’indipendenza africana con la fondazione delle loro nazioni, tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Invece di assurgere a partner commerciale del mondo sviluppato, aumentando la sua porzione nella produzione mondiale totale, l’Africa ha visto persino quel minuscolo 3% del commercio mondiale detenuto negli anni Cinquanta calare al 2% nel corso degli anni Novanta, ed oggi questa percentuale è scesa addirittura all’1,2, con la sola eccezione del Sud Africa.

    Dopo aver presentato questi dati sul problema africano nel rapporto sopra citato, la Banca Mondiale giunge ad una sorprendente conclusione: “Se non si interviene, i problemi dell’Africa peggioreranno”, e scopre anche che “investire nella popolazione è anche essenziale per accelerare la riduzione della povertà”.

    Se gli economisti della Banca Mondiale hanno bisogno di più di cinquant’anni per scoprire una cosa così semplice – dopo aver promosso per 25 anni spietate politiche di disinvestimento ai danni della popolazione – come si fa a prendere sul serio l’intenzione da essi dichiarata di voler dimezzare il numero assoluto dei poveri in Africa entro il 2015? Secondo le loro statistiche, occorre un tasso di crescita del 5% in tutta l’Africa soltanto per impedire un aumento della povertà, e di almeno il 7% per dimezzare il numero dei poveri. Questo è tre volte il tasso di crescita media conseguito dal 1973 ad oggi. Per raggiungere l’obiettivo indicato la Banca Mondiale propone di seguire proprio quelle stesse misure economiche neo-liberiste a cui già si deve il disastro degli ultimi vent’anni, ma in maniera ancora più radicale!

    C’è da concludere che senza la compassione della Banca Mondiale e del FMI i problemi dell’Africa non possono che migliorare!

    La strategia della tensione

    Il collasso economico e la disintegrazione sociale di cui furono vittima diversi paesi africani nel solo corso degli anni Ottanta sarebbero già di per sè sufficienti ad alimentare violenti conflitti, tanto tra nazione e nazione quanto all’interno di ciascuna di esse. Ma a peggiorare le cose si è aggiunto l’intervento della geopolitica occidentale. Mentre l’attenzione mondiale era focalizzata sulla serie di eventi che sfociò nella Guerra del Golfo, lo sfortunato presidente dell’Uganda, ex colonia britannica, con assistenza e aiuto dall’esterno, aggredì il vicino Ruanda, mascherando l’operazione come una “ribellione”. Ruanda e Burundi furono travolti da una spirale di violenze che condusse ai tragici eventi del 1993-1994. Altre due “ribellioni” esplosero nuovamente nel Congo, rispettivamente nel 1996 e nel 1998, e precipitarono il paese nella guerra. Questa guerra ha distrutto le prospettive di pace in Angola e ha destabilizzato tutta l’Africa meridionale.

    Quante sono state le vittime di quella carneficina? Non si riesce nemmeno a contarle. Forse cinque milioni sono le vittime dirette della guerra, e svariati altri milioni sono le vittime delle malattie e degli stenti provocati dalla guerra.

    Alle guerre nella regione dei Grandi Laghi e in Congo si aggiunse la crisi e il conflitto nel Sudan meridionale, che alcune forze manipolatrici cercarono di attizzare dall’esterno nel corso degli anni Novanta, per creare uno scenario da “scontro di civiltà”.

    Il cuore dell’Africa è devastato dai signori della guerra che si pongono al servizio dei nuovi colonialisti. Come mai le capitali di paesi che non hanno miniere né d’oro né di diamanti, né riserve di legno, sono diventate grandi esportatrici di questi beni?

    Quando gli stati, i governi e i confini scompaiono, e l’autorità sui territori è solo quella esercitata dalla forza militare, compresa quella dei mercenari, si raggiunge ila massimo della deregulation e della liberizzazione dei mercati. Così, chi dispone di quella forza può imporre il ribasso dei prezzi di un certo prodotto, o più semplicemente fa man bassa e consegna tutto ai suoi sostenitori stranieri.

    Questo è un processo di saccheggio: materie prime come petrolio, minerali, metalli e pietre preziose, e prodotti agricoli, vengono sottratte ad un continente le cui popolazioni muoiono di fame o di malattie. Al tempo stesso, la strategia della tensione conduce al perpetuarsi dei conflitti, di modo che le nazioni e i governi africani non arrivano mai ad afferrare l’opportunità di impiegare le risorse naturali di cui dispongono per il proprio sviluppo.

    Prendiamo in esame un documento molto interessante intitolato: “Tendenze globali 2015: un dialogo sul futuro con esperti non governativi”. È stato prodotto dal National Foreign Intelligence Board, con l’approvazione del direttore della Central Intelligence Agency del governo USA lo scorso novembre a Washington. Questo ci riporta direttamente al fenomeno che Lyndon LaRouche ha caratterizzato, durante la sessione del mattino, come la politica di disintegrazione controllata e neo-malthusiana promossa da Kissinger e Brzezinski, risalente ai primi anni Settanta e tutt’ora vigente nei raggruppamenti di potere anglo-americani, in particolare nella nuova amministrazione Bush. Alcuni ministri di questo nuovo governo, come Donald Rumsfeld, detenevano già da allora importanti incarichi di governo. Il documento mette in luce tutta la brutalità delle discussioni in corso a Washington sul futuro dell’Africa.

    Allo stesso tempo si cerca di ingannare l’opinione pubblica con le parole sdolcinate della Banca Mondiale sulla riduzione della povertà. Il FMI, compreso il suo nuovo Segretario Generale Horst Koehler e gli altri funzionari, e la Banca Mondiale, sotto il fuoco delle critiche internazionali, dichiararano di essere preoccupati per la povertà dilagante, ma non hanno alcuna intenzione di dar seguito ai loro presunti buoni propositi.

    Questo è confermato dalle citazioni che seguono, tratte dal documento “Tendenze globali 2015”, che è di pubblico dominio e reperibile sul sito web della CIA. Dopo il sottotitolo “Africa Sub-Sahariana, tendenze regionali”, si legge:

    “L’interazione di fattori demografici e malattie – oltre al malgoverno – costituirà la determinante principale della crescente marginalizzazione dell’Africa nel 2015. La maggior parte degli stati africani non riusciranno ad agganciarsi alla crescita economica generata in altre regioni dalla globalizzazione e dal progresso scientifico e tecnologico. Solo pochi paesi se la caveranno un po’ meglio, mentre molti altri riusciranno a malapena ad avere alcun peso sulla vita dei loro cittadini. Mentre si accumulano i problemi multipli e interconnessi dell’Africa Sub-Sahariana, le tensioni etniche e interne si intensificheranno, sfociando periodicamente in nuovi conflitti, diffondendosi sovente oltre i confini, fomentando talvolta stati secessionistici.

    "LA DIFFUSIONE ATTUALE DELL’HIV

    “Se non si assisterà ad un grande passo avanti nella medicina, l’inarrestabile dilagare dell’AIDS e di altre malattie decimerà la popolazione adulta economicamente produttiva, accentuerà la già notevole componente giovanile del paese, e produrrà una vasta schiera di bambini orfani. È una situazione che metterà a dura prova la capacità del sistema familiare allargato di far fronte al problema, contribuendo ad aggravare l’insoddisfazione, il crimine e l’instabilità politica. Povertà e malgoverno daranno ulteriormente fondo alle risorse naturali, conducendo ad un rapida urbanizzazione. Siccome le popolazioni impoverite abbandonano le campagne improduttive, molte città raddoppieranno di numero entro il 2015, ma le risorse saranno insufficienti per provvedere alla necessaria espansione delle reti idriche, delle infrastrutture igieniche, e delle strutture medico-sanitarie. Le città diventeranno fonte di crimine e di instabilità mentre le differenze etniche e religiose inaspriranno la concorrenza per i posti di lavoro e le risorse in continuo calo. Il numero dei malnutriti aumenterà di oltre il 20% ed il potenziale per le carestie persisterà ovunque i conflitti e i disastri naturali ricorrenti impediscono o limitano gli sforzi umanitari.

    “PROSPETTIVE ECONOMICHE

    “Le condizioni per lo sviluppo economico nell’Africa Sud-Sahariana sono limitate dal persistere dei conflitti, dall’inadeguata leadership politica e dalla corruzione endemica, e da condizioni atmosferiche imprevedibili. Gli africani più dotati eviteranno il settore pubblico o saranno attirati all’estero dalla prospettiva di un reddito migliore e di una sicurezza maggiore. Leader capaci e coscienziosi difficilmente possono emergere da società non democratiche e corrotte. La maggior parte degli avanzamenti tecnologici dei prossimi quindici anni – con la possibile eccezione di sementi geneticamente modificate – non produrrà alcun effetto positivo sulle economie africane. Sebbene l’Africa Occidentale svolgerà un ruolo crescente nei mercati globali dell’energia, fornendo il 25% delle importazioni petrolifere del Nord America nel 2015, c’è da aspettarsi il permanere della situazione presente, in cui i proventi del petrolio alimentano la corruzione piuttosto che lo sviluppo economico. Vi saranno eccezioni a questa panoramica desolata. La qualità del governo, piuttosto che la disponibilità di risorse, costituirà l’aspetto decisivo dello sviluppo e della differenziazione degli stati africani. Sud Africa e Nigeria, che sono le maggiori economie del continente, rimarranno le potenze dominanti nella regione. Ma la loro capacità di funzionare come locomotive economiche e stabilizzatrici nelle rispettive regioni sarà limitata dalla grande richiesta insoddisfatta di risorse per stimolare l’occupazione interna, la crescita e i servizi sociali, compreso il problema dell’AIDS. Perfino il robusto Sud Africa non avrà una forte capacità trainante sui partner della Comunità di sviluppo sudafricana (SADC). Il successo economico del Sud Africa sarà dovuto più ai suoi rapporti con l’economia globale, che a quelli con l’Africa sub-sahariana.

    “CONFLITTI ETNICI, POLITICI E RELIGIOSI

    “Il ruolo dei soggetti non stato. L’atrofia dei rapporti speciali tra le potenze europee e le loro ex colonie africane sarà praticamente completa nel 2015. A riempire il vuoto saranno le organizzazioni internazionali e le formazioni di vario tipo diverse dallo stato: istituzioni religiose transnazionali, organizzazioni internazionali non profit, organizzazioni criminali e di trafficanti di stupefacenti, mercenari stranieri e terroristi internazionali alla ricerca di rifugi sicuri. I movimenti fondamentalisti, specialmente quelli che fanno proselitismo all’Islam, troveranno un terreno fertile, giacché gli africani cercano sistemi alternativi di far fronte alle esigenze primarie. I conflitti internazionali attrarranno organizzazioni criminali straniere o mercenari – talvolta anche con il benvenuto dei leader – che saranno complici nel saccheggio dei patrimoni nazionali, mentre i regimi traballanti cederanno volentieri la loro sovranità in cambio di contante”.

    Dopo aver letto un resoconto come questo, non credo che si possano nutrire ancora illusioni sull’indirizzo generale della nuova amministrazione Bush e delle élite anglo-americane nei confronti dell’Africa.

    L’alternativa: la pace attraverso lo sviluppo

    Nonostante tutto, c’è ancora un’alternativa.

    Alla fine degli anni Ottanta, il gruppo Bonifica dell’IRI–Italstat mise a punto uno studio intitolato: “Transaqua: un’idea per il Sahel”, presentato al pubblico nel 1991-1992. Il progetto prevede il trasferimento di 100 miliardi di metri cubi di acqua dal bacino del fiume Congo alla regione del Sahel – tra Ciad e Niger. Il quantitativo è solo il 5% dell’acqua che il fiume scarica nell’Atlantico, ma è più dell’acqua immessa dal Nilo nel lago di Assuan. Il progetto prevede un canale navigabile che parte dal lago Kivu risalendo ad arco verso nord-est per 2400 Km, raccoglie le acque pluviali del bacino imbrifero del Congo, raggiunge lo spartiacque Congo-Ciad nella Repubblica Centrale Africana, e scarica le acque alla sorgente del fiume Chari, affluente del lago Ciad.

    I benefici che si prospettano per l’irrigazione, la produzione idroelettrica e i trasporti per tutti i paesi interessati, dovrebbero essere evidenti. I progetti indotti già anticipati nello studio sono numerosi. I paesi e le popolazioni dell’Africa centrale e della regione dei Grandi Laghi potrebbero concentrarsi a realizzare il Transaqua a beneficio comune.

    Se l’occidente avesse voluto seguire una strategia responsabile per la pace e lo sviluppo dopo il 1989, avrebbe incoraggiato i leader africani a cercare soluzioni in questa direzione. Invece, Transaqua è rimasto nel cassetto, e i protagonisti della geopolitica occidentale hanno fomentato la guerra nell’Africa Centrale.

    Questo dovrebbe eliminare ogni illusione.

    Dietro le lacrime di coccodrillo che alcuni leader occidentali versano per l’Africa, insieme alle belle parole, nei consessi internazionali come quelli dell’ONU, c’è la realtà agghiacciante di una pianificazione a tavolino che prevede la continuazione della politica coloniale attraverso la strategia della tensione e la pura e semplice cancellazione delle nazioni africane dalla carta geografica.

    Per questo motivo è urgente lanciare un nuovo appello pan-africano, un appello che tragga la sua autorità dai diritti inalienabili dell’uomo. Il diritto allo sviluppo di ciascuno e di tutti i popoli, a prescindere dal colore della pelle e dal credo religioso. Il pan-africanismo oggi deve riformulare una strategia di pace attraverso lo sviluppo che rivendichi uguali diritti economici per l’Africa rispetto alla comunità delle nazioni degli altri continenti.

    Ciò che i padri fondatori dell’Africa si ripromettevano di ottenere cinquant’anni fa, ritorna e diventa la missione per il nuovo secolo: costruire, nel giro di una o due generazioni, delle nazioni africane capaci di godere della pace e di raggiungere il benessere economico che è necessario alla dignità dell’uomo, e goderlo a parità di diritto rispetto al cosiddetto settore avanzato.

    Vorrei sottoporre alla discussione delle misure concrete, articolate in cinque punti:

    1. Cancellazione del debito estero africano

    Ritengo che tutto il debito estero dell’Africa debba essere cancellato in blocco. Non soltanto l’Africa ha già ripagato diverse volte il debito inizialmente contratto, ma tutti sanno bene che i creditori non riuscirebbero mai a riscuotere quel debito, nemmeno a trovare sufficienti leader politici africani disposti a svendere completamente il proprio popolo. Si tratta pertanto di un problema che deve essere eliminato in blocco. Ma questo è un problema di terz’ordine per lo sviluppo Africano.

    2. Ri-regolamentazione del commercio mondiale e ripristino di misure protezionistiche per le economie nazionali

    Le due misure più importanti devono consistere nel ribaltare gli effetti devastanti della deregolamentazione del commercio mondiale introdotte nell’ambito delle riforme GATT e WTO e nel promuovere lo sviluppo dei mercati interni delle economie nazionali africane.

    La ri-regolamentazione del commercio mondiale deve comprendere l’istituzione di un prezzo di parità (parity price) per le materie prime e per i prodotti agricoli. In tal modo le economie africane otterrebbero un reddito ragionevole dalle esportazioni, corrispondente al valore effettivo dei prodotti esportati, mentre ora sono costrette a vendere a costi inferiori a quelli di produzione. Occorre porre fine alla strategia delle grandi multinazionali, volta a ridurre continuamente il prezzo di mercato delle materie prime africane. In tal modo, con la scusa del libero mercato, contadini e lavoratori africani sono stati condannati a lavorare come schiavi per il mercato mondiale.

    La campagna a favore del pagamento di “riparazioni” all’Africa, per le ingiustizie che essa subì a causa della tratta degli schiavi, dovrebbe fare proprio questo aspetto del problema. Per l’occidente, il modo migliore di “riparare” alle ingiustizie del colonialismo è eliminare le ingiustizie del sistema economico presente, che colpiscono specialmente l’Africa ed il settore in via di sviluppo, pagare prezzi di parità per i beni importati e trattare gli africani come partner a pieno titolo del commercio mondiale. In tal modo l’Africa otterrebbe il denaro necessario per il proprio sviluppo, e gran parte degli aiuti allo sviluppo non sarebbero più necessari.

    La necessità di tornare a regolamentare il commercio mondiale, con l’introduzione di prezzi di parità per materie prime e prodotti agricoli, costituisce un aspetto fondamentale di un nuovo ordine economico mondiale giusto. Questo dovrebbe essere abbinato a misure protezionistiche, per consentire la nascita e lo sviluppo delle attività industriali. È del tutto inaccettabile che l’industria tessile di Kenia, Nigeria, Ghana, Zambia, Zimbabwe ecc. venga spazzata via e sostituita da importazioni di prodotti di seconda mano dall’Europa e dagli Stati Uniti. Si tratta di un’altra truffa del sistema deregolamentato.

    Le misure protezionistiche sono indispensabili a garantire la nascita ed il rafforzamento dei mercati interni. Se i mercati interni funzioneranno, il potere d’acquisto delle popolazioni africane tenderà ad aumentare, consentendo loro di diventare clienti migliori del commercio internazionale, che comprende anche il commercio regionale africano.

    3. L’emissione di credito internazionale a lungo termine per progetti infrastrutturali di vaste dimensioni.

    È indispensabile realizzare i grandi progetti idraulici del continente, come quello del Nilo, del Kagera e del Congo. Occorre inoltre un sistema ferroviario continentale a passo standard e un sistema autostradale. Occorrono tutte quelle infrastrutture pesanti necessarie ad un’economia funzionante, e alla cui realizzazione devono partecipare non solo operai, ma anche ingegneri e tecnici locali. In tal modo la costruzione delle infrastrutture metterebbe in moto la produzione di beni fisici reali, come primo passo dello sviluppo dell’economia interna dei paesi.

    Occorre riprendere in esame i piani già esistenti di sviluppo infrastrutturale di portata continentale. Nelle discussioni che terremo a conclusione di questo seminario dovremmo mettere a punto un piano dei progetti infrastrutturali prioritari, stabilendo quali sono i più idonei a promuovere lo sviluppo integrato del continente, in contrapposizione a quei progetti dove la realizzazione di infrastrutture è concepita in funzione dello sfruttamento coloniale, che servono solo ad accelerare il saccheggio del continente, non certo a svilupparlo.

    Un esempio di piano di questo genere colonialistico è quello ideato da un’impresa americana col nome di progetto “Solomon”. Prevede di sottrarre acqua al fiume Congo per trasportarla, attraverso una rete di condutture, fino alle regioni del Medio Oriente. Purtroppo il governo di Kinshasa sta già negoziando i termini di questo progetto che, se dovesse concretizzarsi, renderebbe impossibile la realizzazione del progetto Transaqua, mandando in fumo un’opportunità unica di rimediare al disastro ecologico ed economico che affligge l’Africa Centrale. Con il Transaqua si potrebbe disporre di milioni di ettari di nuova terra coltivabile nei paesi della regione, ora colpiti dalla fame. Transaqua cambierebbe la dinamica di sviluppo di tutta l’Africa Centrale e i suoi benefici si estenderebbero anche ai paesi vicini come il Sudan, l’Uganda e specialmente gli stati popolosi del Ruanda e del Burundi.

    4. Utilizzare appieno il potenziale agricolo africano

    Gran parte dell’Africa gode di condizioni climatiche più favorevoli all’agricoltura di quelle europee o statunitensi. L’Africa deve essere posta in condizione di produrre, non soltanto le materie prime come il cacao, ma anche prodotti ad alto valore aggiunto, sia per il fabbisogno alimentare delle popolazioni locali che per l’esportazione in aree del mondo dall’agricoltura carente, come il Medio Oriente e vaste regioni asiatiche. I proventi di questo export andrebbero principalmente a finanziare l’industrializzazione africana.

    5. Unire i paesi africani in un programma di pace attraverso lo sviluppo

    Ritengo che cercare di risolvere i conflitti in Africa senza offrire l’opportunità più ampia di sviluppo per tutto il continente sia uno sforzo destinato a fallire. Il principale problema da affrontare, come risulta evidente dai tentativi di pacificazione condotti ad esempio nel Sudan meridionale, in Arusha per il Burundi, o con l’accordo di Lusaka nel Congo, è che le popolazioni coinvolte sono prostrate, demoralizzate, prive di speranze concrete. Per superare questo problema, occorre offrire una prospettiva ambiziosa di sviluppo generalizzato come quella qui proposta, che consenta all’Africa di raggiungere una posizione alla pari con la comunità delle nazioni entro la metà del 21° secolo, e alle sue popolazioni di vivere in pace, nella giustizia e nel benessere.