ECONOMIA

Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietà

ECONOMIA

  

 

     

    MOZART E IL DON GIOVANNI

    o

    IL TRIONFO DELLA LEGGE NATURALE

     

    di Eric Sauzé

     

     

    "Coloro che gli Dèi vogliono perdere,

    da questi, innanzitutto, sono resi folli." 

    - Adagio della Grecia classica -

     

     


         
    Wolfgang Amadeus Mozart
    Il 27 gennaio il mondo ha celebrato il compleanno di Mozart, inaugurando il 2006 come l’anno mozartiano. Al grande compositore dedichiamo questo saggio sul Don Giovanni, che insieme alle Nozze di Figaro costituisce una esplicita polemica contro il libertinismo (e liberismo) dell’oligarchia, e contrappone la giustizia divina alla tirannia. Polemica contro l'ingenuità, severa contro il fatalismo, l'opera di Mozart è il risultato di un ottimismo militante. Certuni hanno potuto domandarsi perché Mozart, grande compositore umanista, abbia scelto un soggetto all'apparenza tanto frivolo quanto frequentato molte altre volte prima di lui, persino nella forma di opere teatrali. Tutti sanno chi sia un "Don Giovanni": un impenitente seduttore di donne, nella sua accezione generale. Questo concetto, tuttavia, è piuttosto banale. Il Don Giovanni di Mozart, infatti, è molto di più che un capolavoro universale della musica, stando al senso stretto del termine.

    Davanti a noi abbiamo, oggi, un morente ordine politico e finanziario, un ordine che domina la nostra società sin dalla fine del sistema di Bretton Woods, così stabilito intorno al 1965-1971, e che non può più nascondere la sua condizione di bancarotta irreversibile. Come oggi, e come nel periodo più recente che gli somiglia, quello della crisi mondiale del periodo 1923-1931, gli anni '70 del Settecento, anni in cui Mozart scrisse il suo capolavoro, furono interessati da una crisi simile. In tali circostanze, il riflesso dell'oligarchia è sempre quello di mantenere la propria tirannia e garantire la propria pratica di saccheggio, ricorrendo ad una dittatura brutale diretta da "bestie umane" al suo soldo (quali sono oggi Bush e Cheney), che governano con il terrore, e con una politica di liberismo estremo, quel liberismo, o libertinismo in economia, contro cui ironizza meravigliosamente l’inno “viva la libertà” inneggiato da Don Giovanni nella festa in cui viene smascherato come un assassino.

    In tempi di incertezza come quelli in cui viviamo, se vogliamo evitare una riedizione in peggio degli errori del passato, e soprattutto vogliamo risolvere la crisi uscendone dall'alto (cosa assolutamente possibile), noi cittadini abbiamo il dovere di agire con efficacia e con conoscenza di causa. E' a tal proposito che il Don Giovanni ci fornisce una lezione e una fonte di ispirazione cruciale.

     

     

    1 - UN'OPERA POLITICA

     

    Esaminando da vicino e senza pregiudizi il dramma come Mozart l'ha costruito, rispetto alle versioni degli autori precedenti, il significato politico dell'opera non lascia dubbi: nell'atto I, il progatonista, accompagnato dal suo servo Leporello, tenta di sedurre Donn'Anna, che lo respinge. Egli allora uccide in duello il di lei padre, che ha osato intromettersi; poi fugge via con Leporello. Anna fa giurare al fidanzato Ottavio che vendicherà la morte dell'anziano padre. In una strada, Don Giovanni incontra per caso e senza averla riconosciuta, Donna Elvira, una delle sue precedenti conquiste, che ha tuttavia preso sul serio la sua promessa di matrimonio, essendo profondamente innamorata del seduttore. Questo le sfugge, ricorrendo al suo servo, il quale cerca di farle cambiare idea mostrandole il catalogo delle tante donne sedotte e abbandonate dal suo padrone. Liberatosi di Elvira, Don Giovanni è pronto per nuove avventure: getta lo sguardo su una giovane contadina, Zerlina, che è in procinto di sposarsi con il suo Masetto. Comincia a sedurla, ma in ciò viene  disturbato da una seconda apparizione di Donna Elvira, la quale riuscirà in seguito a convincere Donn'Anna che l'assassino di suo padre, il Commendatore, è proprio lui. Malgrado la riluttanza di Masetto, Don Giovanni organizza una grande festa, alla quale invita i futuri sposi, e dove Elvira, in testa alla congiura che coinvolge anche Anna e Ottavio, interrompe Don Giovanni nel suo tentativo di violentare Zerlina, e lo smaschera davanti a tutti. Ma Don Giovanni sfugge ancora e si fa più arrogante che mai, non senza aver cercato di uccidere il suo stesso inserviente, facendo sfogare su di lui la collera degli altri.

    Il secondo atto si apre sulle proteste di Leporello per le condizioni di vita che il padrone gli impone, ma questo si rifiuta di abbandonare la vita del seduttore e si affretta a placare il domestico con del danaro. Poi, si accinge a sedurre la serva di Elvira e, per farsi accettare da lei, obbliga Leporello a scambiare con lui i vestiti. Così, affida a Leporello Donna Elvira, e se ne parte per conquistare la sua nuova bella. E' interrotto nella sua serenata da Masetto, partito sulle sue tracce in compagnia di alcuni uomini decisi ad ucciderlo. Gli abiti di Leporello lo salvano dalla collera dei contadini. Altrove Leporello, seguito da Elvira che lo crede suo "marito" pentito, s'imbatte in Anna, Ottavio, Masetto e Zerlina, anch'essi decisi ad uccidere coloro che scambiano per Don Giovanni. Per salvarsi, si leva la maschera: ciò fa precipitare la crisi. In un cimitero, Don Giovanni invita a cena la statua del Commendatore che ne decora la tomba. Nonostante i moniti di Elvira e le ingiunzioni della statua, che si inseriscono come elementi di disturbo del suo festino, Don Giovanni si rifiuta di pentirsi ed è gettato negli Inferi. Il dramma, dunque, si chiude sui commenti degli altri personaggi: "Questo è il fin di chi fa mal! / E de’ perfidi la morte / alla vita è sempre ugual.".

    Mozart non fa nulla per caso; è un artista che rispetta la missione da lui stesso scelta: operare per una società liberata dall'oligarchia e fondata sulle migliori idee del rinascimento leibniziano. Intriso dell'ideale di un Moses Mendelssohn, grande ammiratore di Shakespeare, da lui perfettamente compreso; ispirato da Bach e da Haydn, oltre i risultati dei quali spinge il suo lavoro, Mozart si concepisce come l'educatore del principe e dei cittadini, delle generazioni presenti e future. In confidenza con l'imperatore Giuseppe II (1780-1790), riformatore e amico della Rivoluzione americana, mette in discussione l'ordine feudale, sia in politica interna che in politica estera. Almeno per la prima parte del suo regno, Giuseppe II applica ciò che un giorno aveva scritto a sua madre: "Che tutti gli uomini sono uguali dalla nascita". Mozart è uno di quegli amici europei della Rivoluzione americana, che l'hanno resa possibile e che lavorano alla sua replica nel Vecchio Continente. Si riconosce in questa rivoluzione, che dichiara al mondo che "tutti gli uomini … sono stati dotati dal loro Creatore di diritti inalienabili, tra i quali vi è la Vita, la Libertà, e la ricerca delle Felicità" (dichiarazione d'Indipendenza delle Colonie d'America, del 4 luglio 1776). Nel 1778, durante il suo secondo soggiorno parigino, incontra Benjamin Franklin, ispiratore e capo del partito americano. In più occasioni nel corso degli anni 1770, il suo librettista Lorenzo Da Ponte ha incontrato a Vienna Beaumarchais, uno degli organizzatori più determinanti del sostegno francese alla causa americana; così ha certamente fatto Mozart stesso, padre delle Nozze di Figaro. Mozart è anche un amico della famiglia della moglie di LaFayette, presso la quale quest'ultimo troverà rifugio, prima di essere espulso dalla Francia. Va vista in questo contesto la sua appartenenza alla massoneria repubblicana, in guerra contro la fazione massonica oscurantista e mistica, vicina all'oligarchia anglo-veneziana che si esprime nei vari Mesmer, Cagliostro, Casanova. Frequentando e influenzando i circoli del potere, Mozart è anche estremamente popolare, sia nella Vienna in cui risiede, sia nella Praga che ancor più lo apprezza: la sua musica viene cantata, stampata, trascritta, suonata ovunque. I Praghesi, fiero popolo ostile all'autoritarismo viennese, si riconoscono in questa musica veramente emancipatrice: le Nozze di Figaro, create da Mozart nella loro città, sono un trionfo.

    Il Don Giovanni viene messo in scena per la prima volta nell’ottobre 1787 proprio a Praga, poi nel maggio 1788 a Vienna. Sono passati undici anni dall’inizio ufficiale della Rivoluzione americana (luglio 1776) e ne mancano quasi due all’inizio di quella francese (maggio 1789). Da un mese soltanto, inoltre, è stata dichiarata la Costituzione degli Stati Uniti d’America, che offre al mondo, per la prima volta nella storia, una repubblica degna del suo nome. In questo momento di trapasso, nel suo Don Giovanni, Mozart pone la domanda fondamentale che agita gli animi davvero rivoluzionari d’Europa:  su quali principii si fonda e si conduce una rivoluzione riuscita? Rappresentando sul palco la rivolta dei contadini guidati da Masetto, prefigurazione delle jacquerie manipolate durante la Rivoluzione francese dell’estate 1789, ma comunque una rivolta di villani contro lo “jus primae noctis” de facto esercitato dal padrone libertino, Mozart affronta il problema delle cieche sommosse giacobine. Come egli ci va mostrando, questo “metodo” d’azione politica non sortisce assolutamente l’effetto desiderato, senza distinguersi dal successivo tentativo di linciaggio del povero Leporello, abbigliato come Don Giovanni.

    Questa opera è dunque “politica”, nella misura in cui fornisce ai cittadini un riferimento per giudicare, prima di agire. Questo aspetto cruciale della sua opera non viene sottovalutato dall’oligarchia del suo tempo, che si affretta a far sparire il fastidioso musicista. E’ verosimile, infatti, che Mozart sia stato avvelenato (1). Così, in piena rivoluzione francese e mentre altri suoi amici austriaci, anch’essi rivoluzionari, sono colpiti da un’ondata di repressione, nel dicembre 1791 egli muore. In un periodo leggermente antecedente, in un rapporto al nuovo imperatore Leopoldo II, il direttore della polizia, il conte Pergen, ha tentato di convincere il suo sovrano che gli amici massoni di Mozart cospirano per “colpire la monarchia, esaltare il senso di libertà nelle nazioni e cambiare il modo di pensare dei popoli… La defezione delle colonie inglesi in America fu la prima operazione di questa élite segreta; a partire da là, essi vogliono estendersi” (enfasi nostra). Questo testo conferma chiaramente il ruolo di Mozart e dei suoi amici, e la paura che essi suscitano nei circoli di un’oligarchia europea che ha perfettamente identificato la minaccia rappresentata da un Rivoluzione di stampo americano nel Vecchio Continente.

     

    2 - DON GIOVANNI O IL DISSOLUTO PUNITO
         LA QUESTIONE DELLA LEGGE NATURALE

     

    Perché una rivoluzione abbia successo, essa deve essere giusta, dunque fondata sulla legge naturale. Questo è il tema centrale dell’opera di Mozart, e dei testi costitutivi degli Stati Uniti d’America e della Repubblica francese.

    La legge naturale non è un concetto esoterico, né una ricetta magica, della quale sarebbe sufficiente conoscere la formula per rendere felici tutti gli uomini. Essa è invece un principio non scritto del diritto, coerente con le leggi dell’Universo, di cui lo spirito umano deve farsi portatore, se vuole contribuire allo sviluppo della natura e della società. Si tratta di un principio eminentemente politico, nel senso più profondo del termine, che deve ispirare il diritto scritto, ovvero la legalità. Esso, però, li trascende, poiché è in opposizione al diritto positivo, cioè alla semplice applicazione ‘alla lettera’. Il diritto naturale è la fonte di ogni giustizia; esso fonda la legittimità, e ogni cittadino che si rispetti ha il dovere di difenderla.

    Nel suo dramma Guglielmo Tell, Friedrich Schiller fa dire agli Svizzeri in rivolta contro la dittatura asburgica: “No, un limite ha il potere del tiranno; quando l’oppresso non trova giustizia, quando insopportabile diventa il peso, al Cielo si rivolge fiducioso, ed ivi trae i suoi eterni diritti” (atto II, scena 2).

    La stessa idea è sviluppata da Martin Luther King. In un discorso del 1954 egli afferma: “Vi sono delle leggi morali nell’Universo, tanto eterne e implacabili quanto le leggi fisiche, e che agiscono in maniera assoluta” (Riscoprire i valori perduti). In un discorso tenuto a Montgomery (Alabama) nel 1965, afferma: “L’arco dell’Universo può essere lungo sì, ma tende verso la giustizia”.

    Quindi, le leggi naturali non possono essere violate impunemente. La forma ultima di una tal violenza è la tirannia, che tutto distrugge e, infine, consuma sé stessa. Lyndon LaRouche ha chiarito questo concetto con un discorso molto preciso in proposito, che riprendiamo dal testo del febbraio 2004, intitolato Questo punto di svolta nella storia mondiale: “Coloro che tormentano gli altri esseri umani, o li trattano alla stregua di bestie, sono spesso - è la storia a mostrarcelo - in preda alla bestialità che hanno covato in sé stessi, scaturita dalla loro indifferenza nei confronti di quelle qualità a lungo termine, e più potenti, che fanno naturalmente dell’uomo e della donna degli esseri ugualmente creati a immagine del Creatore dell’Universo”. Si tratta della stessa idea che Mozart tratta nel Don Giovanni.

    Questa legge naturale implica anche una concezione rigorosa e vera della natura dell’uomo. Esso, infatti, è essenzialmente differente dagli animali. Ciò che lo caratterizza, è la sua capacità cognitiva che gli rende possibile la scoperta di principii fisici universali, scientifici e culturali, risolvendo i paradossi che si formano a livello delle percezioni sensoriali, nel mondo visibile. L’universo, dal canto suo, è un principio di generazione che soltanto l’uomo può gestire tramite la sua ragione creativa. Esplorando l’ignoto esso trasforma in meglio l’ambiente circostante. Non nego che vi sia una natura biologica, ma non è in essa che risieda la sua identità, la sua specificità. Mozart, come tutti gli aderenti alla corrente platonica e leibniziana, rifiuta una definizione meramente animale dell’essere umano.

    Questo fatto ci porta alla questione cruciale della morte e della mortalità. Questo “denominatore comune a tutti gli esseri umani”, usando l’espressione di Martin Luther King, è una legge irriducibile della natura. Essa è un fattore di uguaglianza tra tutti gli individui; poiché pone indiscutibilmente un limite, perlomeno fisico, a qualunque attività umana e sfida qualunque persona matura. Per LaRouche, nel momento in cui un individuo prende coscienza della propria mortalità, comincia il suo cammino verso la saggezza. La domanda diventa: “Che atteggiamento assumerò dinnanzi alla morte, scorgerò una forma d’immortalità che dia senso alla mia esistenza?” Questo aspetto essenziale della legge naturale, essendo connesso alla nozione di giustizia, è un tema cruciale del capolavoro di Mozart.

    La morte e la sfida dell’aldilà sono onnipresenti. Sia all’inizio del Don Giovanni, con l’assassinio del commendatore nel corso di un impari duello (accompagnato da un magnifico trio musicale), sia quando Leporello è minacciato di morte a più riprese, sia nella scena finale al cimitero, di fronte alla statua del defunto commendatore. Ancora, la morte tormenterà Anna fino alla fine, ed Elvira in un momento cruciale del dramma.

    È illuminante leggere che cosa pensa Mozart, mentre compone il Don Giovanni. In una lettera dell’aprile 1787 indirizzata al padre gravemente colpito dalla malattia che lo porterà presto alla morte, scrive: “Giacchè la morte (se consideriamo bene le cose) è l’ultima tappa della nostra vita, con questa migliore e vera amica dell’uomo ho da qualche anno maturato una familiarità tale che la sua immagine non soltanto non contiene per me alcunché di spaventoso, ma è piuttosto qualche cosa di rassicurante e di consolante! "E ringrazio Dio di avermi accordato (voi mi comprenderete) di scoprire in questa disposizione la chiave della nostra felicità.” Non vado a dormire senza pensare (nonostante la mia giovane età) che potrei non essere più vivo al mattino – e nessuno, tra tutti quelli che mi conoscono, può dire che io sia di una naturale afflizione, o tristezza. Per questa felicità, ringrazio ogni giorno il mio Creatore e l’auguro di tutto cuore ai miei simili”.

    Ma comprendiamo meglio questa lettera, intrisa di uno stupefacente ottimismo, se ricordiamo la battaglia e le idee del musicista. Dicendo che la morte è la migliore amica dell’uomo, ci lancia una sfida non indifferente! È così che egli raggiunge le vette del sublime di Schiller: con la sua azione, sa di cambiare il corso della storia passata, presente e futura, e non teme di scomparire da questo mondo, anche quando si sente mortalmente minacciato dai suoi numerosi nemici. La sua lettera non è un esercizio di stile, anzi eleva il suo autore allo stesso livello di Giovanna d’Arco e di Martin Luther King.

    La musica del Don Giovanni esprime precisamente questa idea: per l’ouverture sceglie la metafisica tonalità di re minore (che ritroviamo nel suo Requiem quattro anni più tardi); l’impressionante andante dell’introduzione, fondato sul ritmo trocaico [2], impone il tema della legge naturale e del suo corollario (la mortalità di ogni uomo) contro il quale il protagonista va ad urtare con esito tragico. Questa idea è arricchita e condotta verso la sua conclusione musicale e drammatica, con l’impiego dello stesso motivo dell’inizio dell’ouverture, allorché la statua del commendatore entra nel salone del libertino, ed ha luogo il “giudizio finale”. La reminescenza e il trattamento musicale di questa scena, alla quale Mozart conferisce una tensione e uno sviluppo ancor maggiore dell’ouverture, ci dimostrano bene di che pasta sia fatta l’opera. Allorché i sopravvissuti al dramma cantano nel coro conclusivo più sopra citato, in cui è sottolineata musicalmente la parola “morte”, si pensa all’aforisma evangelico: “Chi di spada ferisce, di spada perisce”.

     

    2a - Denunciare l'oligarchia

     

    Attraverso questa versione della storia e del personaggio del Don Giovanni, Mozart in effetti denuncia la natura e gli assiomi dell’oligarchia, caratteristica dei quali è il rifiuto del cambiamento, del progresso. Il protagonista è una bestia umana che non s’interroga affatto sulle conseguenze dei suoi atti e si crede indistruttibile, come dice alla fine del primo atto: “Ma il coraggio non mi manca, non sono né perso né confuso; se anche il mondo tremasse, nulla mi farebbe paura”. Questo atteggiamento è tipico dell’utopia della tirannia, che s’immagina al di sopra delle leggi, che senza vergogna calpesta, e che, provocando e seminando il caos, pensa “dopo di me, il diluvio!”.

    Don Giovanni è anche un frenetico consumatore, come dice a chiare lettere il suo servo Leporello, nella famosa aria del catalogo. In generale, non si chiede mai come vengano prodotte le cose che consuma: da buon parassita feudale, pratica l’economia della rapina, entro la quale le donne non sono che le prime vittime. In altre parole, è ossessionato dai divertimenti, come dimostra il suo atteggiamento nei confronti di Zerlina; ma questa mania non risparmia nessuno: il fedele e masochista Leporello riceve ogni sorta di sfogo sadico. Don Giovanni si prende gioco di tutto e di tutti, in un’eterna fuga dalla realtà, che egli pretende di violare in ogni momento, appunto a suo piacimento.

    Certamente, possiamo dire che il libertino non pensa, poiché si comporta come un essere puramente bestiale: egli, infatti, sente “odor di femmina” (atto I, scena 4); tutta la sua esistenza è strettamente determinata dai sensi.

    È importante notare che la brutale seduzione che il personaggio esercita non soltanto sugli altri personaggi, ma anche sul pubblico, è proprio uno strumento del potere snaturato, tipico di personaggi come François Mitterand e Nicolas Sarkozy.  Qui, la seduzione è molto di più che il semplice inganno, poiché implica il travestimento. Qui, Mozart denuncia il metodo veneziano, proprio prendendo ad esempio l’agente della Serenissima Giacomo Casanova, in tutte le sue declinazioni: l’uso della maschera (che il libertino indossa sin dalla sua prima apparizione sulla scena), la calunnia (con la quale Don Giovanni tenta di far passare Elvira per una pazza), la menzogna (più volte impiegata). Il tutto è talmente ben fatto, che Don Giovanni finisce quasi per crederci (atto II, scena 2).

    Da un punto di vista politico, la seduzione è sempre stato il metodo del tiranno e dei suoi lacché per manipolare e corrompere la popolazione. Oggi questo è più evidente che mai. Ecco perché Mozart ha conferito al personaggio questa apparente ambiguità, che inganna perfino la ‘preveggente’ Elvira. Dopotutto, Don Giovanni sembra sicuro di sé, forte e coraggioso (alla fine dei due atti), ed anche brillante. Riesce perfino ad ingannare il suo stesso mondo, come dimostrano le tante esegesi, che nel capolavoro non ritroverebbero alcuna giustificazione morale.

    L’oligarchia ha bisogno di servitori, di manovali, di complici. Don Giovanni, quindi, ha Leporello. Il servo ricopre al fianco del libertino lo stesso ruolo che giocano oggi gli amministratori, i banchieri e altri sicari che si associano all’oligarchia. Leporello forma, con il suo padrone, il duetto che lega indissolubilmente l’oppresso, più o meno consapevole, al suo oppressore, la vittima al suo carnefice. Leporello deriva il suo nome dalla lepre, sottolineando anche in questo modo la codardia che lo caratterizza: in più è geloso e invidioso. Mettendolo in scena, Mozart provoca lo spettatore a riflettere sul proprio asservimento – qualora vi sia -, e a reagire.

    Don Giovanni finirà vittima del suo errore più importante: il suo rifiuto oligarchico di cambiare. Non soltanto rifiuta per ben tre volte di pentirsi, ma si spinge (questa è un’aggiunta di Mozart) a simulare il pentimento davanti ad Elvira – il colmo dell’ipocrisia e della crudeltà -  per raggiungere i suoi scopi. All’inizio dell’atto II, raggira il suo ingenuo inserviente che gli domanda di “lasciare da parte le femmine”. In seguito, a Elvira che gli domanda di cambiare, risponde con delle volgari provocazioni (atto II, scena 14). Infine, verso la fine dell’atto II, si scontra con il commendatore venuto dall’oltretomba. Alla figura che, con un amore infinito, lo esorta a cessare ogni violenza e a pentirsi, egli oppone l’estremo e fatale rifiuto.

    Ecco perché Mozart ha conferito a Don Giovanni questa fissità frenetica, brutale, ossessiva e dissennata, così caratteristica della cultura della nostra epoca, e che ritroviamo nella musica del libertino, particolarmente nella famosa aria n° 11 (Finch’han dal vino, atto I, scena 15):

     

    Fin ch’han dal vino

    calda la testa,

    una gran festa

    fa preparar.

    Se trovi in piazza

    qualche ragazza,

    teco ancor quella

    cerca menar.

    Senza alcun ordine

    la danza sia:

    chi il minuetto,

    chi la follia,

    chi l’alamanna

    farai ballar.

    Ed io frattanto

    dall’altro canto

    con questa e quella

    vo’ amoreggiar.

    Ah! La mia lista

    doman mattina

    d’una decina

    devi aumentar.

     

    A causa della sua cecità e del suo disinteresse per le conseguenze dei suoi atti, Don Giovanni abbandona tutto, dopo averlo afferrato o posseduto. Incapace di uscire dalla contraddizione tra il suo vuoto assoluto interiore e la sua apparente forza esteriore, finisce per autodistruggersi.

     

    3 - I FONDAMENTI DI UNA RIVOLUZIONE RIUSCITA

     

    Mozart, tuttavia, non si ferma qui. Ai suoi ascoltatori, egli indica in negativo – per così dire - gli errori da non commettere di fronte alla tirannia e la concezione dell’uomo a cui deve ispirarsi il vero rivoluzionario.

    In primo luogo, nella famosa scena del ballo in chiusura del primo atto, egli pone in contrapposizione due concezioni della libertà: una è fondata sulla giustizia, l’altra è perfettamente arbitraria. Non lo fa in maniera didascalica, ma invitando gli ascoltatori alla riflessione, giocando sulle ambiguità, sia musicali che sceniche: la festa procede a tutto spiano nel castello del libertino mentre entrano, mascherati, Elvira, Ottavio e Anna. Il servo li invita ad unirsi ai festeggiamenti, poi Don Giovanni, grande signore “liberale”, dichiara: “È aperto a tutti quanti. / Viva la libertà!” Il trio risponde ironicamente: “Siam grati a tanti segni / di generosità.” Quindi Don Giovanni ripete in maniera quasi solenne, dando il la, per dire ancora “Viva la libertà!” Leporello riprende lo stesso tema leggermente modificato, seguito dal trio e dal suo padrone. È in questo preciso momento, mentre il duo e il trio cantano insieme le stesse parole “Viva la libertà!”, che Mozart introduce nella musica una dissonanza con più risvolti. Questo colpo audace fa apparire immediatamente nell’universo sonoro e mentale ciò che gli ascoltatori già suppongono: le due concezioni della libertà sono inconciliabili e oppongono il trio alla coppia servo-padrone. Il trio,  infatti, ha posto la sua azione sotto la protezione del Cielo, mentre Don Giovanni difende una concezione sinarco-oligarchica della libertà. Da un punto di vista musicale, è significativo che Leporello sia quasi “sommerso” dagli altri e che la dichiarazione dissonante sia nuovamente cantata, ma di sua iniziativa, ripetendo la parola libertà per sei delle undici volte in totale.

    Nondimeno, Mozart si spinge ancor più in là. Nello stesso tempo in cui ci mostra il problema di Don Giovanni, egli denuncia una giustizia fondata sulla vendetta, per natura oligarchica. I ribelli sono infuriati, come lo sarà la fazione omonima durante la Rivoluzione francese. Una semplice rivolta non porta molto lontano, e finisce nell’impotenza, come confermano le parole di José Bové nell’articolo pubblicato il 9 settembre 2003 su Le Monde: “Nel secolo scorso, il fantasma era credere che le cose sarebbero cambiate facendo una rivoluzione. La gente ha compreso che questo non funziona e, soprattutto, che questo non migliora affatto la situazione. Oggi, siamo entrati nell’epoca delle rivolte. È  molto destabilizzante il fatto che nessuno sappia come si comincia e come ci si ferma.” Questa attitudine priva di riflessione e cieca, unicamente rivolta contro l’altro, conduce, in ultimo al fascismo. Mozart ci avverte per tempo e situa la pur necessaria rivoluzione ad un livello superiore. I rivoltosi sono infatti dominati dalle loro passioni irrazionali.

    - Leporello vuole “fare il gentiluomo” all’interno delle regole del gioco dell’oligarchia e, scimmiottando il suo padrone, non disdegna nemmeno il ruolo del seduttore, cosa che lo rende molto vulnerabile alla corruzione.

    - Alla fine del primo atto, Elvira e le altre maschere impiegano il metodo veneziano della simulazione: denunciano sì Don Giovanni, ma sono incapaci di cambiare il corso delle cose, limitandosi a fare appello alla vendetta.

    - Masetto resiste bene a Don Giovanni: organizza una spedizione punitiva, ma questa jacquerie ha scarso effetto poiché la sua rabbia e la sua gelosia accecano i suoi sensi e gli impediscono di mantenere il sangue freddo. Si fa ingannare; gli altri rivoltosi si fanno manipolare.

    Ma Mozart crede nella perfettibilità umana. Ha conferito ad una donna, Elvira (cosa non anodina per l’epoca) la qualità di redentrice, perché vuole mostrare ciò che può essere, entro i limiti del dramma, una forma terrestre del principio dell’agape, parallela all’azione della giustizia divina, che rappresenta il commendatore. Anche se Elvira non raggiunge concretamente il suo scopo, nell’ultima parte del dramma, si fa rappresentante umana del Diritto naturale, che in tal modo non resta “disincarnato”. Pensiamo alla prima Lettera ai Corinzi (cap.13), in cui San Paolo  spiega che senza il vero amore, che ripone la sua gioia nella verità, anche il migliore tra gli uomini sarà sempre una nullità. Coerentemente a questa affermazione, in una lettera dell’11 aprile 1787, Mozart scrive: “Né l’intelligenza elevata, né l’immaginazione, né le due messe insieme fanno il genio. Amore! Amore! Amore! Ecco l’anima del genio.”

    Elvira è veramente innamorata di Don Giovanni, e appassionatamente legata alla Giustizia divina. Vi fa riferimento sin dall’inizio del dramma e, in seguito, a più riprese. Nello stesso tempo, tuttavia, è dominata da una violenta rabbia vendicativa e tale rimarrà per lungo tempo. Nonostante questo, è l’unico l’unico personaggio che conoscerà un profondo cambiamento, poiché sarà la sola ad aver fatto della compassione un principio attivo e personale. Inizialmente infuriata, è in seguito sconvolta dal conflitto tra la sua ragione e le sue emozioni, debolezza che la porterà a subire una crudele umiliazione, dalla quale uscirà più grande. Elvira riuscirà a maturare tale “conversione” perché è l’unica a prendere seriamente gli esseri umani, la verità, la Giustizia divina, ed è dunque animata da una passione intera per il bene altrui. In questo senso, è l’esatto opposto di Don Giovanni. In lei non v’è alcun dongiovannismo emotivo, o intellettuale; nessuna superficialità.

    Riesce a compiere un “salto di geometria” proprio grazie a questa peculiare qualità. Il cambiamento risulta evidente con l’inversione, filosofica e musicale, nel suo monologo determinante della decima scena (recitativo con orchestra e aria). Nel recitativo, affronta con coraggio il male e la morte, il grigiore irriducibile del libertino che le appare in tutta la sua crudeltà; poi nell’aria propriamente detta, il punto più saliente, risolve il dilemma che la rode interiormente trasformando la sua sete di vendetta in compassione. Avendo cambiato sé stessa, vorrà cambiare anche l’altro, ma si scontrerà infine con “l’anima di bronzo” del seduttore.

    Per comprendere in tutta la sua ampiezza la portata di questo momento di trasformazione, bisogna vedere e ascoltare la scena, poiché la musica ne è l’elemento essenziale, ma la modifica apportata da Mozart al libretto, in coerenza alla musica, già offre una buona idea della cosa.

    Ecco il monologo di Elvira:

     

    (Recitativo)

     

    In quali eccessi, o Numi! In quai misfatti

    Orribili, tremendi, è avvolto lo sciagurato!

     

    Ah no, non può tardar l’ira del cielo,

    la giustizia tardar.

    Sentir già parmi la fatale saetta,

    che gli piomba sul capo!

    Aperto veggio il baratro mortal.

              

    Misera Elvira!

    Che contrasto d’affetti in sen ti nasce!

    Perché questi sospiri e queste ambasce?

     

     

    (Aria)

    Mi tradì quell’alma ingrata,

    infelice, oh Dio! Mi fa.

    Ma tradita, abbandonata,

    provo ancor per lui pietà.

     

    Quando sento il mio tormento

    Di vendetta il cor favella,

    ma se guardo il suo cimento

    palpitando il cor mi va.

     

    In questa fase del testo, tanto in ogni strofa quanto nell’insieme, è presente la contraddizione e nulla è ancora risolto; Mozart interviene, ricomponendo il libretto dell’aria, per dare a questo dialogo interiore un orientamento e, soprattutto, una risoluzione.

     

    Ecco l’aria ricomposta da Mozart con la musica:

     

    [In Mi Bemolle Maggiore]

     

    Mi tradì quell’alma ingrata, quell’alma ingrata,

    infelice, oh Dio! mi fa,

    infelice, oh Dio! mi fa,

    infelice, oh Dio! oh Dio! mi fa.

     

    Ma tradita, abbandonata,

    provo ancor per lui pietà,

    provo ancor per lui pietà,

    provo ancor per lui, per lui pietà.

     

    Mi tradì quell’alma ingrata, quell’alma ingrata,

    infelice, oh Dio! mi fa,

    infelice, oh Dio! mi fa,

    infelice, oh Dio! oh Dio! mi fa.

     

     

    [In Mi Bemolle Minore]

     

    Quando sento il mio tormento, il mio tormento,

    di vendetta il cor favella,

    ma se guardo il suo cimento

    palpitando il cor mi va,

    palpitando il cor mi va,

    palpitando!

     

    Mi tradì quell’alma ingrata, quell’alma ingrata,

    infelice, oh Dio! mi fa,

    infelice, oh Dio! mi fa,

    infelice, oh Dio! oh Dio! mi fa.

     

    Ma tradita, abbandonata,

    provo ancor per lui pietà, per lui pietà,

    provo ancor per lui pietà,

    provo ancor per lui pietà, per lui pietà, per lui pietà!

     

     

    In quest’aria, il senso della “conversione” d’Elvira si chiarisce ancor più ascoltando la musica, che non ha affatto il carattere scuro e mesto che le parole potrebbero suggerire. La tonalità del pezzo è il mi bemolle maggiore; Mozart, all’improvviso, assegna ad Elvira un tema d’una dolcezza e d’una luce che destano stupore, proprio mentre ripete il ritornello “Mi tradì quell’alma ingrata”. Ancor più interessante è il cammino musicale della nostra eroina. Accompagnato da flauti, clarinetti e fagotti con un motivo tenero e cantabile, cugino del primo tema, rivolto direttamente a Dio in una sorta di preghiera, Elvira parte da una constatazione: il tradimento di Don Giovanni la rende infelice, ma prova per lui pietà. Il riaffacciarsi dell’ingrato alla memoria (terza strofa) la fa ricadere in un accesso di rabbia vendicativa (è qui che Elvira passa nella più scura tonalità del mi bemolle minore), al quale fa seguito un grande trasporto emotivo non appena le sovviene il destino dello sfortunato libertino. Le palpitazioni del cuore aprono ad una sospensione ed al ritorno alla tonalità maggiore. Elvira allora porta a compimento la risoluzione delle sue contraddizioni. Dopo la ripresa del ritornello, con un senso rinnovato (quinta strofa), si ha lo smorzamento di un cambiamento, che Mozart sottolinea apportando delle modifichee musicali al primo paragrafo: la risoluzione della crisi, accompagnata dal nuovo motivo gioioso e affermativo dei fiati e del basso, sostenuto dalla discreta potenza dei cori, diventa definitiva. Elvira supera le frustrazioni del tradimento ed entra in un altro mondo. Ecco perché, alla fine, ella ripete con insistenza la sua compassione (“pietà”) per Don Giovanni ed esprime l’elevazione del suo animo verso il cielo moltiplicando proprio sulla parola “pietà” il ricorso al registro vocale acuto. La conclusione serena  e trionfante dell’orchestra conferma infine questa vittoria.

    Così come Mozart l’ha composta, l’“inversione” di questo momento del dramma si situa a più livelli contemporaneamente: è personale, emotiva, intellettuale, ma anche semantica e musicale, nel linguaggio che il musicista ha attribuito al suo personaggio. Mozart procede così su un contropiede sorprendente e molteplice: su un testo che un compositore convenzionale avrebbe accompagnato con una musica triste, egli compone un’aria piena di vigore e di serenità. Non si accontenta nemmeno di far seguire le scene in modo lineare, creando invece una sorta di dialogo tra la voce e i motivi, che è come una proiezione nel mondo sensibile del dialogo interiore d’Elvira; soprattutto, mette in scena musicalmente il momento decisivo della “conversione”, grazie ad una rotazione del testo e della musica. E’ questa qualità di cambiamento assiomatico che caratterizza una vera rivoluzione.

     

    3a - Rompere le regole del gioco

     

    Il compositore, dunque, lancia due avvertimenti ottimistici. Come Leibniz, egli sa che “noi viviamo nel migliore dei mondi possibili e immaginabili”, cioè un universo buono e bello, organizzato in funzione della più grande efficacia nel suo stesso sviluppo. Di conseguenza, e contro ogni forma di manicheismo, da un male può venire un bene superiore, poiché il bene, atto di creazione, è il solo principio efficace e durevole. Il rifiuto di questa legge condanna alla sconfitta. Ecco perché l’uomo è fatto in modo da non poter vivere in eterno, nella negazione delle leggi dell’universo. Quando il male diventa troppo insopportabile, attraverso l’azione di individui come Mozart, l’umanità rompe quelle regole del gioco che causano la sofferenza, e crea una cultura migliore. Le condizioni di crisi sono, infatti, anche quelle che permettono l’organizzazione di un salto qualitativo.

    Mozart polemizza contro le due follie più diffuse nel suo tempo. Rivolgendosi a tutti, attacca la cultura “popolare”, secondo la quale i rapporti umani sono obbligatoriamente dei rapporti tra chi domina e chi gli è sottoposto. In realtà, è la feudalità che, trattando la gente alla stregua di bestiame, ha creato le condizioni culturali e sociali nelle quali essa adotta e mantiene un tal genere di reciproche relazioni, nella maggioranza dei casi inconsciamente. Questo fenomeno proseguirà fino ai giorni nostri, come attesta il gran numero di persone che dichiarano con convinzione che vi saranno sempre i forti e i deboli, e a questo non v’è rimedio. È questo modo di pensare, segno di una sottomissione mentale all’oppressore, il bersaglio di Mozart, il quale prima lo palesa, poi lo ridicolizza tramite la figura tragicomica di Leporello, per invitare con vigore gli ascoltatori a disfarsene. Accanto a ciò, denuncia l’incompetenza autolesionista dell’oligarchia. Inscenando in maniera precisa il metodo adottato dalle aristocrazie e dai banchieri feudali, eredi dell’impero veneziano, il Don Giovanni ci aiuta, oggi, a comprendere e a distruggere la follia di massa della controcultura, che l’oligarchia odierna impiega allo scopo di manipolare la popolazione. In questo senso, il personaggio del Don Giovanni, concentrato caricaturale controculturale e assai moderno, ci aiuta a identificare gli erronei presupposti assiomatici entro i quali la feudalità ha riassorbito la nostra società, e l’opera in musica ci fornisce gli strumenti concettuali per uscirne.

    Come secondo avvertimento, troviamo l’invito di Mozart rivolto alla classe dirigente dell’epoca (l’oligarchia europea) e al donnaiolo Giuseppe II, la cui politica verso la fine degli anni 1870 sta subendo una fastidiosa inversione. Con un appello audace, egli esorta i governanti a sbarazzarsi delle loro follie e utopie, spesso frutto di semplici cattive abitudini, anziché subire la pena della stessa condanna all’autodistruzione di Don Giovanni. Non occorre sottolineare che questo approccio non sarà gradito agli oligarchi e che il Don Giovanni sarà mal accolto nei teatri viennesi.

    Mozart, infine, ci presenta il criterio fondamentale di una rivoluzione riuscita: la pratica e il rispetto di tutti e per tutti grazie ad una più alta concezione dell’Uomo. È proprio questo l’ingrediente che manca nella trama dell’opera. Ciò che colpisce nei personaggi, è l’inadeguatezza delle loro reazioni, qualora ve ne siano, o la loro scarsa tempestività. Elvira stessa è vittima di questa sindrome. I protagonisti si lanciano in una serie di rivolte, che non costituiscono affatto una rivoluzione. Il principio rivoluzionario che anima il dramma è per così dire metafisico (il personaggio reale dell’opera è il principio della Giustizia celeste). La società che Mozart descrive è dunque tragica, ma il potenziale di redenzione rimane intatto, tanto nella condizione umana, quanto nella legge della natura. Così si capisce l’importanza delle incitazioni a cambiare, che Elvira indirizza a Don Giovanni, che hanno il risvolto di un costante riferimento alla giustizia divina, e dei tanti appelli alla compassione.

    Per mostrarci che è possibile determinare una rivoluzione coerente con la legge naturale, Mozart introduce sia nelle parti del dramma, che nel suo insieme, uno strumento di valutazione: il giudizio. Elvira lo dice sin dal primo atto, parlando del libertino (quartetto della scena 11): “Di quel ceffo si dovrìa / la ner’alma giudicar”. Il compositore, a sua volta, mette in scena tre tipi differenti di giudizio. In primo luogo, nel finale del primo atto, assistiamo alla denuncia pubblica di Don Giovanni, inefficace perché costui fugge via, più arrogante di prima. In secondo luogo, si ha il “falso giudizio” (atto II, scene 8-9-10). Infuriati e vendicativi, i personaggi vogliono linciare Leporello, ma la verità d’un tratto emerge: Don Giovanni appare per quel che è, un assassino senza scrupoli. È in questa scena che le differenze tra i vari personaggi si chiariscono maggiormente: in nessun momento essi, infatti, si preoccupano del destino della società ora dominata da Don Giovanni. Unicamente preoccupati di sé stessi, o limitandosi a delle relazioni interpersonali dirette, finiscono per fallire nel loro intento. Esclusa Elvira, trasformata a causa di uno choc, ma non in grado di far granché per cambiare le cose (finirà per decidere di ritirarsi in un convento), gli altri restano immersi nelle regole del gioco dominanti, rispetto alle quali Don Giovanni rimane il grande signore. Il formalismo e l’inadeguatezza della reazione tardiva di Ottavio sono patetici e degni di derisione. Di questa tragedia, si avrà una fine soltanto con un intervento “esterno”, quello della statua del Commendatore, che provocherà il terzo, vero e ultimo giudizio di Don Giovanni. Così questo si confronterà con il principio di realtà per eccellenza, il denominatore comune a tutti gli esseri umani, la morte, che prima non aveva mai preso in considerazione, sulla quale non aveva mai seriamente meditato, né sulla sua, né su quella degli altri. La statua celeste lo esorta per l’ultima volta a pentirsi, ma continua a rifiutarsi e – così facendo – si condanna, proprio per il cattivo uso del libero arbitrio. Mettendo in scena questo giudizio “ultimo”, Mozart ci invita a non commettere l’errore di Don Giovanni, anzi a procedere regolarmente nel nostro esame di coscienza. Colui che fa il bene non avrà timore, né di tale esame, né della morte, la quale diventerà, secondo le parole del musicista stesso, la migliore amica dell’uomo, e non quella sorgente di sofferenze e angoscia in cui vediamo metaforicamente sprofondare Don Giovanni nel momento di esalare l’ultimo respiro. L’inferno che ci viene rappresentato è la manifestazione di un’attitudine mentale. Siamo infatti colpiti degli accenti sconvolgenti che Mozart conferisce all’ultimo canto del libertino. Il compositore ha un buon motivo: vuole suscitare la nostra compassione per questo povero malfattore, questo sfortunato uomo-bestia che soffre per la prima volta nella sua vita; vuole provocare in noi quell’emozione che Schiller pone tra i sentimenti più nobili dell’uomo, poiché vuole in noi destare quel cambiamento che ci renda più umani. Questo è il senso del nostro confronto con la prova sublime della dannazione sulla scena.

               Questo momento è fondamentale: qui Mozart suscita in noi il tipo d’emozione matura che deve ispirare un cittadino della storia. Non si tratta di una gentilezza buonista, né di un lassismo; al contrario, è un moto impellente dell’anima, che richiede in tutti perfino l’amore per il nemico, nel senso inteso da Martin Luther King. Questo è l’unico approccio che permetterà di liberare i cittadini dal loro asservimento, interiore ed esteriore, nei confonti dell’animalità oligarchica.

     

    4 - IN CONCLUSIONE, L'IRONIA MOZARTIANA

     

    Mozart, dunque, insiste moltissimo sull’ostinato rifiuto dell’oligarchia per il progresso di tutti e per tutti gli uomini, e coltiva in questo dramma musicale la “ambiguità mozartiana” che ha invero sconcertato moltissime persone. In realtà, la sua opera è come la vita: per comprenderla, bisogna ascoltarne tutte le note, occorre guardarne ogni dettaglio, contemplando la duplicità di questo mondo, costituita dai fenomeni delle nascite e dalle scoperte, scientifiche o artistiche. Con questo metodo provocatorio, egli ci predispone a ipotizzare la soluzione alla tragedia esposta.

    A questo riguardo, il Don Giovanni è l’opera più shakespeariana di Mozart, per la densità e per l’intensità degli interventi del principio dell’ironia. Navighiamo in una costante ambiguità, che impedisce ogni fissazione, ogni atteggiamento didascalico, in una serie di apparenti contraddizioni: ecco un’opera terribilmente tragica ma che finisce bene, nella tonalità radiosa del re maggiore! Il tragicomico è sempre presente, ma su un soggetto a priori tra i più futili Mozart costruisce una delle opere più serie, sia a livello teologico e filosofico, che a quello psicologico e politico! Lo stesso Don Giovanni sembra contraddittorio: il gran signore seducente e brillante, se non manca di stile, è tuttavia moralmente mostruoso. Questa apparente contraddizione non lascia facilmente a proprio agio. Analoga considerazione è per la figura di Leporello, simpatico e familiare, ma lascivo e grottesco fino all’esasperazione; sembra la figura speculare del suo padrone, ma ne è a tutti gli effetti il complice, in una relazione contro natura. Come abbiamo detto, Elvira stessa non è esente dalle contraddizioni, rimanendo la sola a superarle con la sua “conversione”.

    Le ambiguità, infatti, si chiariscono e si risolvono nella composizione musicale, che gioca un ruolo di unificazione. L’autore è un “musicista-scienziato”, e come ogni buon uomo di scienza ci rende partecipi della sua scoperta. Ecco perché la sua musica non sta nei suoni che si susseguono, bensì in una dinamica che  porta l’idea. Essa non punta a piacere, ma ad elevare; non è sensualista, perché tende a destare nello spirito dell’ascoltatore un dialogo con il compositore, e con i personaggi. Tra la musica e il dramma, intesi come sviluppo di un’idea, vige una consustanzialità sorprendente. Mozart domina una grande varietà di stili compositivi, senza mai essere dispersivo. L’idea creatrice è onnipresente e quindi non ci si può annoiare, poiché non v’è spazio per i cosiddetti tempi morti. La scienza compositiva è tra le più sagge; lo sviluppo che ne deriva è conseguentemente legittimo e naturale.

    È nella musica che Mozart acutizza maggiormente l’ironia poetica: a partire dai suoi studi su Bach e Haydn, egli ha raggiunto una rivoluzionaria scienza del contrappunto (vedi un saggio di Lyndon LaRouche sulla rivoluzione mozartiana). Abbiamo già incontrato l’ambiguità dell’inno alla libertà, introdotta da esplicite dissonanze. Troviamo un esempio ancor più incisivo dell’abilità del musicista nella scena del ballo verso la fine del primo atto. Tre piccole orchestre si susseguono a turno sul palco, suonando tre danze differenti per il ritmo e per il loro significato sociale: un minuetto in 3/4, una controdanza in 2/4 e un’allemanda in 3/8. Ancora una volta, la cosa più importante non è l’abilità contrappuntistica, ma la maniera in cui si combina questa molteplicità fino al colmo della tensione drammatica. Quindi, la grande capacità compositiva e l’ordinamento degli sviluppi tematici sono al servizio dell’idea nella più rigorosa libertà, e rendono percepibile alla coscienza ciò che è nell’ordine dell’intelligibile.

    In questa opera non sono proposte delle ricette predefinite. L’apparente ambiguità si risolve in un movimento, che ogni spettatore deve scoprire in sé stesso. La verità del Don Giovanni non sta nei tanti elementi, ma in ciò che tutti li genera.

    L’opera non lascia indifferenti, poiché provoca e disturba con la sua ironia, ma non tradisce la sua intenzione ben definita: ci mostra la supremazia delle leggi dell’universo sull’arbitrarietà della tirannia, lanciandoci una sfida. Opera politica e non di intrattenimento, ci invita a salire sul palco della storia, per agire con lo stesso ottimismo di colui che dichiarò: “Tutti gli errori, tutti i ritardi, tutte le sofferenze, non impediscono che vi siano nell’universo, tutti i mezzi necessari per distruggere in futuro i nostri nemici” (detto un certo giorno, il 18 giugno 1940).

    E oggi come ieri, ma ancor più di prima, è il momento dell’azione.

     

    Note:

    1. A partire dal luglio 1791, Mozart confida a sua moglie, nel corso di una passeggiata a Vienna, che è sicuro di essere stato avvelenato con l’acqua toffana, una soluzione di arsenico dall’azione lenta (testimonianza di Mary Novello, che rese visita a Costanza da tempo vedova, nel 1829). L’evoluzione dello stato clinico del musicista, e cioè lo strano rigonfiamento del corpo nel momento del decesso, la descrizione della sua morte, il carattere rapido e insolito del suo seppellimento, che avrebbe dovuto essere quello di un borghese agiato (fu gettato in una fossa anonima) e la violenta caccia alle streghe che colpì tutti i suoi amici dopo la sua scomparsa (Costanza in seguito distrusse il 90% dell’epistolario del defunto marito), sono, tra molti altri, elementi che portano a pensare a questa ipotesi.

     

    2. Ritmo fondato sul trocheo, un piede della poesia greco-latina formato da una sillaba lunga e una breve.