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Iran: il cambiamento di regime non è un'opzione migliore dell'aggressione militare


5 maggio 2006 – L'opzione di aggredire l'Iran raccoglie opposizioni crescenti, sia negli USA che internazionalmente, per questo c'è chi pretende di essere ragionevole proponendo come opzione di ripiego “un cambiamento di regime con altri mezzi”. Sembra più allettante di uno scenario militare già screditato, anche se non c'è da credere che questo sia davvero bocciato.
Inscenare una mobilitazione di forze d'opposizione in Iran, contro il governo, non è una nuova trovata. Dai tempi della Rivoluzione Islamica del 1979 gli ambienti anglo-americani ed elementi israeliani si occupano di come rovesciare il regime di Teheran. Queste operazioni si sono intensificate di recente, come riferiscono i mezzi d'informazione iraniani, turchi, come pure altre fonti d'intelligence della regione mediorientale. Se queste notizie sono vere occorre fare in modo che i fanatici neoconservatori si rendano conto che non soltanto non può funzionare, ma che alimentare operazioni del genere non farà che aggravare la situazione già insostenibile dell'Iraq.
Mentre un attacco militare contro gli impianti nucleari iraniani incendierebbe l'intera regione, le attività terroristiche e separatistiche alimentate contro Teheran sono la miccia di quella bomba chiamata “Kurdistan” che minaccia la stabilità e l'integrità di quattro paesi: Turchia, Siria, Iran e Iraq. Nessuno dei vicini dell'Iraq è disposto ad accettare una minaccia del genere alla propria integrità.

I militari non ci stanno

Il motivo per cui in pubblico ora si preferisce parlare di più di questa seconda opzione, il cambiamento di regime, è che tra gli alti ufficiali statunitensi è scoppiata una vera e propria rivolta contro il ministro della Difesa Donald Rumsfeld, del quale è stato richiesto l'allontanamento. Sebbene i generali abbiano preso a pretesto per la loro sortita l'evidente incompetenza di Rumsfeld nella gestione dell'occupazione in Iraq, in realtà il vero motivo dell'iniziativa è che si sono resi conto che gli stessi neocons erano decisi a colpire militarmente l'Iran, cosa che loro sono determinati ad impedire.
Il capo degli stati maggiori riuniti gen. Peter Pace ha ricevuto una lettera da parte di un gruppo di generali e ammiragli in servizio attivo che minacciavano le dimissioni se si vedono ordinare un attacco contro l'Iran. Un altro alto ufficiale in servizio, il gen. Victor Renuart, direttore della pianificazione degli stati maggiori riuniti, ha detto al Telegraph del 1 maggio, a proposito delle iniziative contro l'Iran: “Qualsiasi azione militare è molto complicata”, a motivo degli effetti che qualsiasi azione militare mette in modo, per cui occorre ricercare in ogni modo delle soluzioni diplomatiche.
Al tempo stesso la Russia e la Cina hanno continuato a puntare i piedi di fronte ai vari tentativi di estorcere il loro consenso ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, per delle sanzioni o addirittura dei passi militari contro l'Iran.
Questo dunque ha indotto a ripiegare sull'opzione del cambiamento di regime, almeno in pubblico.

Cambiamento di regime con ogni mezzo

Bush promosse il cambiamento di regime in Iran nel messaggio dell'Unione dello scorso gennaio, e rivolgendosi direttamente alla popolazione iraniana promise tutto il suo sostegno per la democrazia. Poi al Senato e al Congresso hanno cercato di dare sostanza all'iniziativa con l'approvazione dell'Iran Accountability Act, in Senato, e con le sanzioni che il Congresso ha approvato a fine aprile. Ma è forte la sensazione che iniziative del genere - compreso il finanziamento di una radio che trasmette in farsi in Iran - non bastino a rovesciare un regime come quello iraniano. Servono però ad alimentare delle operazioni contro l'Iran sul campo che si vorrebbe presentare come se fossero attività “democratiche e spontanee” che “maturano” nel paese.
È così che le crescenti operazioni militari che si stanno verificando sul campo sono convenientemente accreditate come frutto dell'opposizione etnica e politica.

Il gruppo d'opposizione più visibile è il Mujahedeen Al Qalk (MKO/MEK) forte dei sostegni generosi di formazioni come il Parlamento Europeo e il Parlamento Britannico, ecc., oltre che dagli USA. MKO è un'organizzazione terroristica che aveva trovato rifugio nell'Iraq di Saddam Hussein da dove mise a segno diversi attacchi terroristici contro l'Iran, attentati dinamitardi e assassinii di molti politici. Con l'invasione dell'Iraq da parte degli USA, le potenze occupanti conferirono al MKO uno status speciale, tanto che poté mantenere la propria milizia armata e continuare a bersagliare il regime di Teheran con la propaganda e atti terroristici, grazie alla protezione degli USA. Recentemente l'organizzazione di facciata di MKO, il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana di Maryam Rajavi, ha rilanciato le attività propagandistiche chiedendo che organismi come il parlamento Europeo e il Congresso USA tolgano il MKO dalla lista delle formazioni terroristiche e gli consenta di “guidare la resistenza” per arrivare al cambiamento di regime a Teheran. Pur disponendo di sue schiere di terroristi ben addestrati il MKO non ha un vero sostegno all'interno dell'Iran. Pertanto, nonostante le sue disponibilità logistiche e gli addestramenti paramilitari, il suo potenziale politico è davvero ristretto - a meno che non riceva un'investitura ufficiale da parte dell'Europa e degli USA.
Nell'aprile e giugno dell'anno scorso elementi arabi sunniti hanno effettuato gravi attentati dinamitardi nel Khuzestan, nel Sudovest dell'Iran. Lo scorso agosto i responsabili furono catturati dalle autorità iraniane secondo le quali essi “hanno confessato i propri legami con gruppi separatisti e di opposizione e la loro appartenenza a servizi d'intelligence stranieri, specialmente quello inglese”. Episodi dinamitardi molto simili si sono verificati anche all'inizio del 2006. La provincia del Khuzestan rappresenta un importante punto di distribuzione del flusso di stupefacenti che dall'Afghanistan entrano in Iran, un traffico che di per e rappresenta un altro aspetto importante della destabilizzazione. Le autorità anti-droga iraniane da anni confiscano grossi quantitativi di stupefacenti nella provincia.
Anche nel Baluchistan, la provincia nel Sudest dell'Iran, che confina con Pakistan e Afghanistan, ribollono fermenti etnici. I baluci prendono iniziative contro il governo centrale forti dell'appoggio di elementi dissidenti in Pakistan, come riferisce l'ex capo di stato maggiore gen. Mirza Slam Beg.

La distribuzione delle popolazioni di lingua curda nella regione mediorientale

La carta curda

La minaccia più grave però è quella della “carta curda”. La regione in cui prevale l'etnia di lingua curda comprende parti dell'Iran, della Siria, dell'Iraq e della Turchia. Alla fine di Aprile il Turkish Daily News ha riferito che gli attivisti paramilitari del PKK, Partito dei Lavoratori del Kurdistan partendo dal Nord dell'Iraq hanno compiuto incursioni sia in Iran che in Turchia. Per tutta risposta la Turchia ha schierato altri 40 mila uomini nella zona a Sudest del paese, portando a 250 mila uomini il contingente militare che presidia la zona spesso colpita dalle incursioni del PKK. A queste attività d'infiltrazione dei terroristi curdi le autorità turche attribuiscono i frequenti episodi di terrorismo, specialmente gli attentati dinamitardi a Istambul. “Il PKK sta cercando di inviare la metà dei suoi 4900 militanti di stanza nell'Iraq settentrionale qui da noi affinché preparino degli attacchi contro le città in Turchia”, ha affermato un ufficiale turco al Turkish Daily News del 22 aprile.
La posizione turca è tutt'altro che difensiva. Il 25 aprile il capo di stato maggiore turco gen. Hilmi Ozkok ha dichiarato che è tutto pronto per entrare nell'Iraq, se occorre, per neutralizzare i terroristi PKK, giustificando questa posizione con l'articolo 51 della Carta dell'ONU. Il ministro della Giustizia Cemil Cicek ha rivolto un appello agli USA, poco prima dell'arrivo di Condi Rice ad Ankara, affinché mettano a disposizione le informazioni d'intelligence sul PKK, in particolare sulle operazioni sul campo, ma la Rice si è tenuta proprio sul vago. Il 3 maggio i militari turchi hanno ribadito di essere pronti ad entrare nel territorio iracheno, se occorre, per inseguire i terroristi. Dal dipartimento di Stato è subito arrivato l'invito ad evitare iniziative del genere. Talebani, il presidente curdo dell'Iraq ha protestato.
Sul versante iraniano intanto il 21 aprile la guerriglia curda ha superato il confine tra Iraq settentrionale ed Iran ingaggiando scontri con le forze iraniane che hanno respinto l'offensiva.
Di nuovo all'inizio di maggio i terroristi curdi hanno rilanciato le proprie operazioni. Il 1 maggio il gen. Alireza Afshar, esponente dello stato maggiore iraniano, ha detto che “certi gruppi terroristici intendono provocare l'insicurezza sul confine tra i due paesi sfruttando la mancanza di controlli nella zona e il probabile sostegno da parte di forze straniere dispiegate in Iraq”. “L'Iran non consentirà operazioni sui confini a qualsiasi gruppo terroristico contro gli interessi dell'Iran o dell'Iraq tenendo così fede ai propri impegni nella campagna internazionale contro il terrorismo”.
Secondo fonti irachene il 21 e 26 aprile le forze iraniane sono entrate nel territorio iracheno per bombardare le postazioni del PKK. Lo stesso si è verificato all'inizio di maggio, quando gli iraniani hanno bombardato le postazioni del PKK nelle montagne di Kandil. L'ex capo di stato maggiore gen. Beg ha fatto notare che la milizia Basiji iraniana conta più di un milione di elementi ed è pronta a mantenere la situazione sotto controllo.

I risvolti politici

Se l'insurrezione del PKK fosse solo una questione militare per Ankara e Teheran non rappresenterebbe davvero un problema. La cosa si complica però sul piano politico. La questione curda è parte integrale della crisi politica irachena.
In Iraq il primo ministro designato, Jawad al-Maliki del partito Dawa, dovrebbe raggiungere un accordo con le fazioni sunnite e curde in Parlamento, per poter formare il nuovo governo. I sunniti esigono che si cambi la costituzione per eliminare i vari impegni al federalismo. I curdi invece vedono nelle clausole federaliste il primo passo verso l'indipendenza.
Il problema è ancora più complicato: i curdi esigono che la città di Kirkuk, in una zona ricca di petrolio, sia riconosciuta capitale della loro regione autonoma, da molti di essi chiamata Kurdistan, per la quale rivendicano la totale indipendenza. I turkmeni e gli arabi sciiti e sunniti sono contrari. Sotto il regime di Saddam, proprio per eliminare le loro ambizioni separatiste e nazionaliste, i curdi furono deportati da Kirkuk e nella città si trasferirono arabi e turkmeni. Dopo la guerra del 2003 i curdi rientrarono nella città espellendone gli arabi. Il governo provvisorio iracheno, sotto gli auspici degli ambasciatori americano e inglese, decise di consentire ai kurdi che rientravano di votare nelle elezioni curde. Questo comportò una forte maggioranza curda nel voto alimentando così le spinte separatistiche. Da allora si è verificato un processo di pulizia etnica, questa volta alle spese di arabi e turkmeni.
Non dovrebbe così sorprendere, come riferiva il Washington Post del 25 aprile, che miliziani sciiti, sia dell'Esercito Mahdi che delle Brigate Badr siano affluiti in massa verso Kirkuk. Un rappresentante di Moqtadar al-Sadr ha parlato di 7000-1000 miliziani sciiti pronti ad unirsi alle sue forze. Di conseguenza anche la milizia curda ha rafforzato le sue truppe nella città e nella vicina Tuz. Si è così creato il potenziale per una guerra civile a Nord.

La duplicità

Giocando la carta curda i necon USA, con l'aiuto di Israele, scherzano con il fuoco. Se le attività terroristiche del PKK favoriscono le mosse verso l'indipendenza del Kurdistan, come già notato, allora la Siria, l'Iran e la Turchia saranno costretti a mettere in campo tutto quello che hanno per proteggersi dalle spinte secessionistiche. La decennale guerra tra il PKK e la Turchia ha già mietuto 30 mila vittime. La Turchia è pronta a mettere in campo tutto ciò che occorre per impedire una ripetizione di quel disastro.
Anche sul conto della disponibilità iraniana ad accettare un cambiamento di regime c'è da farsi poche illusioni: il gen. Beg ha notato che molto è cambiato dal 1953, quando gli anglo-americani rovesciarono il governo democraticamente eletto di Mohammad Mossadeq. Specialmente se si fa affidamento sulle etniche arabe o curde.
La politica ufficiale USA è bifronte: da una parte giura di volere un Iraq unito, democratico e sovrano e dall'altra ha favorito il federalismo come preludio ad una spartizione. Contemporaneamente gli USA hanno lanciato la caccia alle streghe contro l'Iran, con le minacce di aggressione o di cambiamento di regime, che in ambedue i casi finirebbe per eliminare ogni speranza di stabilità per l'Iraq. Da una parte Condi Rice a parole dice di sostenere la Turchia nella lotta contro il PKK, ma dall'altra questa formazione ufficialmente sulla lista dei terroristi gode della protezione (se non molto di più) dalle forze occupanti USA.
Per evitare che l'intera regione finisca in fiamme i piromani - Cheney, Rumsfeld, Rice e Bush - debbono essere allontanati dal potere.

Muriel Mirak-Weissbach