ECONOMIA

Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietà

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Il partito della guerra non è invincibile

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La destabilizzazione geopolitica globale



[Solidarietà, anno XI n. 1, febbraio 2003]


Il partito della guerra non è invincibile

Certo è che fa paura, ma a ben vedere il partito della guerra è un gruppo molto ristretto nell’amministrazione Bush: Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz, Lewis Libby, Richard Perle, David Wurmser, Dough Feith, John Bolton e pochi altri.
C’è da notare che, dopo il voto del 5 novembre negli USA che ha visto una notevole affermazione repubblicana, mentre sembrava che i falchi avessero ottenuto carta bianca per un’avventura nel Golfo, c’è stata un’imprevista frenata. L’ONU è stato chiamato in causa e il partito della guerra si è trovato davanti molti più ostacoli di prima. Un miracolo? No. Ci sono meccanismi di potere che occorre conoscere e influenzare: il fattore più ovvio è la riluttanza dei militari americani alla guerra in Iraq.
Resta il fatto che il partito di Rumsfeld e Cheney sta facendo il possibile per ridefinire le istituzioni militari, di polizia e dei servizi affinché si conformino alla loro utopia imperiale. La manovra, però, ha il fiato corto. LaRouche ne ha parlato a Milano.

La ristrutturazione imperiale delle forze armate e dei servizi USA

I piani di Rumsfeld: centralizzazione dei servizi,
della propaganda di guerra e delle forze speciali
nelle mani degli “utopisti” civili

L’ultimo numero del 2002 del settimanale New Yorker pubblica con rilievo un articolo di Seymour Hersh che denuncia la manovra del Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld per costituire i propri servizi separati, sul modello del GRU sovietico. Hersh traccia il parallelo tra il nuovo programma per la “licenza di uccidere” dell’Ufficio del Segretario alla Difesa e “l’operazione Pohenix” all’epoca della guerra del Vietnam.
Hersh descrive la vicenda dell’eliminazione di presunti leader di Al Qaida in Yemen, che il 5 novembre furono colpiti da un missile sparato da un aereo teleguidato “Predator” mentre viaggiavano in automobile. Secondo Hersh, il 22 luglio 2002 Rumsfeld avrebbe chiesto al gen. Charles Holland, comandante delle Operazioni Speciali, di “preparare un piano per scovare e affrontare i terroristi. Lo scopo è catturarli per interrogarli, oppure, se necessario, ucciderli, e non semplicemente arrestarli secondo le regole delle forze di polizia”. L’ordine fa seguito alla precedente richiesta di Rumsfeld a Holland, presentata subito dopo l’11 settembre 2001, di fare la lista degli obiettivi terroristici per una rappresaglia immediata.

Forze deviate

Il modo di fare di Rumsfeld non sarebbe affatto piaciuto ai Capi di stato maggiore riuniti i quali, secondo Hersh, non vogliono che le forze speciali – le SEALS della US Navy, la Delta Force dell’esercito e la supersegreta unità Gray Fox – finiscano per diventare “squadre di cacciatori di teste”. Hersh aggiunge che tra Rumsfeld e gli alti ufficiali del Pentagono è finita ai ferri corti perché i comandanti militari temono una riedizione del programma per le eliminazioni di massa in Vietnam noto come Operazione Phoenix. Hersh indica tra i primi responsabili di tale politica Paul Wolfowitz, Douglas Feith e William J. Luti, funzionario poco noto finito a dirigere l’Office of Special Plans, che col suo nome alquanto vago è indicato però da Hersh come “il centro degli schemi strategici più aggressivi che si elaborano oggi al Pentagono”. Un esperto del settore avrebbe confidato a Hersh che “Feith e Luti pensano che chi non è al cento per cento dalla loro parte sia al cento per cento contro di loro, vivono in un mondo decisamente manicheo”.
Un ex agente della CIA che ha partecipato a diversi incontri tra Rumsfeld e i funzionari civili del Pentagono che gli sono più fedeli ha detto a Hersh: “Ci sono in giro cinquecento tizi che debbono essere uccisi. Non serve star lì a cercare di nasconderlo: bisogna ammazzarli. E non c’è modo di fidarsi al cento per cento dei servizi. Qualche volta devi accontentarti del novantacinque per cento”.

Minculpop per gli alleati
Il New York Times del 16 dicembre ha pubblicato un articolo intitolato “Al Pentagono si discute un’offensiva propagandistica nelle nazioni alleate”, in cui si parlava della direttiva segreta del Dipartimento della Difesa intitolata “3600.1: Information Operations” che, secondo il giornale, sarebbe motivata dal fatto che Rumsfeld “è decisamente frustrato dal fatto che il governo USA non ha un piano coerente per plasmare l’opinione pubblica mondiale a favore dell’America”, ed è anche irritato da quello che ritiene un atteggiamento anti-americano da parte di paesi alleati come Germania e Corea del Sud. Il quotidiano cita la direttiva: “In tempo di pace le Operazioni di Informazione sostengono gli obiettivi nazionali in primo luogo influenzando all’estero l’opinione e il processo decisionale. In situazioni di crisi prossime all’apertura delle ostilità esse debbono essere usante come opzione deterrente flessibile per comunicare l’interesse nazionale e dimostrare la propria risolutezza. Nel conflitto vi si può ricorrere per ottenere risultati fisici e psicologici a sostegno degli obiettivi militari”.
La lettera d’informazione Reseau Voltaire, ben collegata ad ambienti dei servizi francesi, ha riferito in merito alla direttiva di Rumsfeld nel numero del 2 gennaio, ponendo in risalto la costituzione di un Office for Strategic Influence (OSI) come organismo di propaganda e disinformazione incaricato di contrastare “l’immagine negativa” degli Stati Uniti e di occuparsi di coloro che all’estero osteggiano la politica guerrafondaia del Pentagono. La lettera spiega che l’OSI in teoria è stato chiuso, ma in realtà è stato segretamente ricostituito agli ordini di Luti e trasferito sotto il Comando Strategico a capo del quale c’è il gen. Simon P. Wordon. Uffici di propaganda sarebbero stati costituiti in tutti e quattro i rami delle forze armate. Luti opera in coordinazione con una vecchia rete “stay-behind” che porta il nome di “Gray Fox” sotto la supervisione di Peter Rodman e Feith.
Secondo Reseau Voltaire, a metà dicembre Rumsfeld avrebbe deciso di dedicare le sue “Operazioni d’Informazione” soprattutto alla Francia ed alla Germania per “screditarle sulla scena internazionale in maniera da porre fine all’influenza che esercitano contro la guerra in Iraq”. Sono stati così presi di mira personaggi politici, giornalisti, intellettuali e uomini d’affari impegnati ad impedire la guerra.
L’opposizione al GRU di Rumsfeld si è fatta sentire anche negli stessi Stati Uniti. Il 30 dicembre il Washington Post ha pubblicato un articolo intitolato “Gli USA hanno svolto un ruolo primario nel riarmo iracheno; fu permessa la vendita di armi chimiche nonostante fossero impiegate contro iraniani e kurdi”. L’articolo, firmato da Michael Dobbs, fa la cronaca dei rapporti tra USA ed Iraq, mettendo particolarmente in rilievo il sostegno che Baghdad ottenne da Rumsfeld nella guerra contro l’Iran, tra il 1980 ed il 1988. “Dai documenti declassificati risulta che Rumsfeld si recò a Baghdad in un momento in cui l’Iraq stava usando armi chimiche ‘quasi quotidianamente’ in barba alle convenzioni internazionali”. Il giorno dopo è intervenuto sul New York Times l’ex segretario di stato Warren Christopher, che ha criticato Rumsfeld dicendo che gli USA non possono combattere una guerra contro l’Iraq e al tempo stesso affrontare adeguatamente la crisi con la Corea del Nord.

Il “grande fratello” di Hoover
Il New York Times aveva già dedicato un articolo ai servizi paralleli che Rumsfeld ha costituito al Pentagono per produrre le “prove” sul conto di Saddam e Al Quaida il 24 ottobre.
Riflettendo “le frustrazioni di Mr. Rumsfeld, del vice segretario alla Difesa Paul D. Wolfowitz e di altri funzionari” che vogliono tutte le informazioni possibili sui mezzi di Saddam Hussein “e sui suoi sospetti legami con organizzazioni terroristiche”, è evidente che costoro, scrive il New York Times, “stanno politicizzando l’intelligence, conformandolo alle loro idee da falchi sul conto dell’Iraq”.
Lo stesso giornale è tornato sull’argomento il 30 novembre descrivendo la ristrutturazione generale delle procedure d’intelligence. Rumsfeld intende affidare lo spionaggio ad un suo nuovo sottosegretario e a dare più spazio alle unità specializzate nelle Operazioni Speciali. L’articolo notava anche la costituzione di due organismi: un ristretto gruppo di esperti, sotto il viceministro alla Difesa Paul Wolfowitz, che avrebbe setacciato le banche dati alla ricerca di informazioni sui collegamenti di Saddam Hussein con il terrorismo, e il Total Information Awareness (TIA), nuovo programma del Pentagono affidato all’ammiraglio John Poindexter, la cui fama è dovuta al caso Iran/Contra.
Il TIA setaccerà le banche dati delle e-mail, delle compagnie telefoniche, delle transazioni, su carta di credito e bancarie, e inoltrerà i dati al nuovo NorthCom dell’esercito, ha spiegato all’Hartford Courant del 20 novembre Christopher Pyle, ex capitano dell’US Army Intelligence. Intervistato dall’EIR, Pyle ha aggiunto: “Si tratta di un’arma molto potente per qualcuno che volesse – come faceva J. Edgar Hoover – screditare o rovinare qualcuno ... Alla FBI allora occorrevano migliaia di ore di lavoro per raccogliere i dati che adesso in 2,7 secondi si scaricano da internet coi motori di ricerca come Google”. Sulla qualità delle informazioni il capitano ha aggiunto: “Una semplice illazione, a forza di farla girare, diventerebbe un’opinione comune: ‘lo sanno tutti’“.
A proposito delle ingerenze dei militari negli affari civili, Pyle ha aggiunto che in teoria il Northern Command si dovrebbe limitare ad operazioni di sostegno su richiesta della polizia e dell’ente per l’emergenza FEMA; in realtà si ripromette di costituire uno staff di 150 analisti dell’intelligence, che sono davvero un’esagerazione se deve solo intervenire dove e quando viene richiesto.

La rivoluzione negli affari militari USA
L’esperto israeliano di questioni militari Amir Oren notava tempo addietro che “i militari americani stanno conducendo una grande battaglia, non contro Saddam o nemmeno contro Qaida, ma contro se stessi”.
La natura della battaglia è dottrinale: da una parte ci sono i conservatori, cioè gente che ha un’esperienza, specialmente nell’esercito, e si attiene al criterio secondo cui per affrontare seriamente una guerra occorre logistica in profondità e una grande potenza di fuoco. Gli innovatori invece, soprattutto ufficiali dell’Air Force, delle Forze Speciali e dei Marines, forti del sostegno di Rumsfeld, sostengono la nozione delle “Effect based operations” (EBO).
Il dizionario militare su internet spiega che le EBO sono “un processo volto ad ottenere sul nemico un risultato strategico, ‘l’effetto’, tramite l’applicazione sinergica, moltiplicativa e cumulativa della piena disponibilità di capacità, militari e non, a livello tattico, operativo e strategico”. La formula per gli addetti è tipica delle deformazioni che l’analisi dei sistemi opera nel modo di pensare di certi militari che vivono in un mondo di videogiochi e joystick.
Il già menzionato Amir Oren non disarma ma cerca di spiegare l’EBO con una bella analogia terra-terra: “La rivoluzione sessuale, dicono qui i piloti a quelli della fanteria, sta nel fatto che bisogna piantarla con la tradizione di invitare le ragazze a cena ... ma arrivare subito al dunque”.
Nel caso concreto di una guerra in Iraq le EBO dovrebbero tradursi in attacchi di precisione a sorpresa da grande distanza, con missili Cruise e bombardieri Stealth, mirati ai “punti nodali” dei “sistemi di sottosistemi” del nemico. Questo dovrebbe dire: colpire al cuore e al cervello, paralizzando il corpo nemico senza recidere prima il braccio armato che lo difende.
L’ex generale dei Marines Gen. Paul Van Riper, spiega che la scorsa estate si tenne l’esercitazione Millennium Challenge per simulare un attacco contro l’Iraq impiegando appunto le “Effects Based Operations” e collaudando le innovazioni che la dottrina comporta.
Van Riper ricoprì il ruolo del “Comandante nemico” nelle esercitazioni e con il suo metodo tradizionale riuscì subito ad affondare (teoricamente) 16 navi della flotta USA di stanza nelle acque settentrionali del Golfo. Ma a metà esercitazione si vide costretto ad abbandonare perché il “Comandate USA” si rifiutò di ammettere che la sua campagna militare era fallita. Van Riper si è detto convinto che tutte le innovazioni di cui si parla sono solo “slogan”, o poco più.

Dietro gli slogan
Dove va allora a parare, in sostanza, questa “rivoluzione”, è stato indicato dalla newsletter elettronica Reseau Voltaire il 10 gennaio: “Sviluppando rapidamente le forze speciali, Rumsfeld mira non soltanto a dotare gli Stati Uniti dei mezzi di intervento gestiti completamente al di fuori del controllo internazionale, ma crea soprattutto un esercito parallelo per eliminare ogni resistenza nell’establishment militare”. Si tratta quindi, spiega la newsletter, di una manovra per aggirare la muraglia dei Capi di stato maggiore e raggruppare le forze speciali sotto il comando del Consiglio di Sicurezza Nazionale, al di fuori di ogni tradizionale gerarchia militare.

L'articolo è tratto dal numero di febbraio 2003 di Solidarietà, il bollettino d'informazione del Movimento Solidarietà che i non iscritti possono richiedere telefonicamente agli uffici di Milano: 02/2613058 – 02/26110612