Il Corriere della Sera ha pubblicato domenica 24 novembre questo articolo in terza pagina riferendo della visita che la collaboratrice di LaRouche Amelia Boynton Robinson ha tenuto in Italia nella seconda metà del novembre 2002.
A colloquio con la 91enne americana, ex braccio destro del leader nero. In Italia per schierarsi con i Disubbidienti
Da Luther King ai no global.
Una donna contro
Amelia Robinson: così insegno ai giovani a lottare senza violenza
«C'era tanta paura, e anche tanta rabbia, in mezzo a noi. E con la paura e la rabbia cominciò a crescere l'odio. Ma riuscimmo a non farci vincere dall'odio. Fummo capaci di continuare le nostre battaglie civili come un esercito pacifico. E con la pazienza, con la nonviolenza, vincemmo. E mi creda, è questa la strada per vincere, ancora oggi, in tutto il mondo».
Quando parla lei, è la Storia che parla. Amelia Boynton Robinson, nera americana, 91 anni, è stata il braccio destro di Martin Luther King, ma si batteva per i diritti della sua gente ancor prima di conoscere il leader evangelico battista assassinato a Memphis, Tennessee, il 4 aprile 1968. «Cominciai a farlo fin da bambina - dice Amelia Robinson - seguendo mia madre, che era un'attivista politica e fu anche il primo segretario della Negro Chamber of Commerce, a Filadelfia».
Dallora, questa signora alta, diritta, autorevole nella figura e semplice e profonda nel linguaggio, settima di dieci figli e vedova di tre mariti, non ha mai dimenticato la lezione. Nemmeno quando passò per la prova più dura, la marcia organizzata insieme con Martin Luther King da Selma a Montgomery, Alabama, il 7 marzo 1965. Quel giorno venne chiamato «Bloody Sunday», domenica di sangue, perché i neri furono picchiati, arrestati, ammazzati. Scrive Arnulf Zitelman: «Tremilaquattrocento persone, tra cui Martin Luther King, vennero arrestate per "comportamento trasgressivo" e la polizia impiegò un'arma nuova, pungoli elettrici per disperdere i dimostranti». La stessa Amelia rischiò la vita. Picchiata e svenuta, si salvò solo perché si finse morta, ma la foto di lei a terra, tramortita, fece il giro del mondo come quella della bambina vietnamita che fugge nuda e spaventata sotto le bombe americane al napalm. Quel giorno però Amelia Robinson e i neri d'America non furono sconfitti. Dopo la domenica di sangue, il presidente Lyndon Johnson firmò il «Voting Right Act», che riconosceva ai neri il diritto di voto.
Quando ricorda, Amelia Robinson cerca di nascondere la commozione con un sorriso dolce perché i fatti che racconta sono terribili. «Finivano in carcere anche i bambini di otto anni, a cui davano da mangiare pane impastato con la sabbia e caffè o tè con il sale. Una di noi fu uccisa con un colpo di pistola alla schiena. Scoprimmo, poi, che a ucciderla fu un agente dell'Fbi che avrebbe dovuto proteggerla». Delitti che gridavano vendetta e stavano per regalare il risultato sperato a chi li aveva ordinati e commessi: la reazione violenta delle vittime, che legittimasse una nuova repressione selvaggia da parte dei carnefici. «Fu molto difficile per noi, anche all'interno del movimento per i diritti civili, spiegare che non bisognava cadere nella trappola - dice Amelia -. In certi momenti, invece di parlare, ci veniva solo da piangere e urlare insieme con quelli che avevano subito le torture del Ku Klux Klan e dei poliziotti. Con il potere che istigava alla violenza contro di noi, dovemmo far ricorso a tutta la nostra volontà e alla nostra fede per tenere unito il movimento su posizioni non violente e convincere noi stessi che quella era la strada giusta».
Amelia Robinson in questi giorni è stata ribattezzata «la nonna dei no global», perché, subito dopo l'arresto di venti esponenti del movimento, ha voluto essere a Roma accanto a Paolo Raimondi, presidente del Movimento internazionale dei diritti civili-Solidarietà, Anubi D'Avossa, portavoce dei «Disubbidienti», Luca Casarini e don Vitaliano Della Sala. «Beh, alla mia età essere nonna è una cosa normale - sorride divertita - ma se sono qui è perché sono stata una disobbediente anch'io. E lo sono ancora. Anzi, credo proprio di essere tra i "cospiratori" che vogliono difendere e far rispettare la Costituzione americana, così come questi ragazzi del movimento, qui in Italia, si battono per un mondo più giusto, contro quello che Luther King chiamava "l'olocausto economico" dei più poveri e indifesi, e lo fanno, a me pare, senza mettersi fuori dalla Costituzione italiana, ma anzi invocandone l'applicazione. Per esempio sulla guerra all'Iraq. Non avete un articolo che afferma che l'Italia la ripudia?».
Ma cosa dobbiamo fare, le chiedono i più giovani, se ci lanciano i gas lacrimogeni mentre sfiliamo per le strade? «Nulla, tutt'al più indossate maschere antigas - risponde Amelia -. E ve lo dico non solo perché i gas li hanno fatti respirare anche a me, rovinandomi i polmoni. Ma perché non dovete fornire alibi a chi non vuole che pensiate e protestiate, come non volevano far pensare noi neri. Fatevi arrestare. Magari a piccoli gruppi, come facevamo noi, uno dopo l'altro fino a riempirgli le prigioni. Non potranno arrestarvi in dieci o ventimila. E non temete, ogni arresto ingiusto è una medaglia. Ma state attenti anche agli infiltrati. Quando li individuate denunciateli pubblicamente». Poi, con un gioco di parole: «Gli arresti non possono arrestare i movimenti».
La vita di Amelia Boynton Robinson è dentro un libro, Bridge Across Jordan (Un ponte sul Giordano), ma non si è conclusa con quell'autobiografia. Amelia continua a girare il mondo e a ripetere, come Martin Luther King, «I have a dream». «Sì, continuo ad avere un sogno - dice -. Lavorare con gli altri esseri umani per ridurre le ingiustizie e costruire un mondo migliore. Lo so, qualcuno potrà sorridere ascoltando queste parole. Ma è da qui che bisogna ricominciare. Combattendo anche contro la paura, la rabbia e l'odio. Lottando per le cose in cui si crede, perché la vita ci è stata data in prestito per farne buon uso».