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Economia fisica: il crac dal punto di vista della composizione della forza lavoro
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Economia fisica:
Il crac dal punto di vista della composizione della forza lavoro
La composizione della forza lavoro è un indicatore molto convincente della crisi a forbice che colpisce l'economia, in cui la produzione reale diminuisce mentre leconomia fittizia e speculativa aumenta. Il calo dei lavoratori effettivamente produttivi e la crescita degli addetti nei servizi sono tendenze sempre più accentuate negli ultimi trent'anni e sono indicatori molto più concreti dei miraggi di ripresa regolarmente sfornati dalle vestali dell'economia monetarista. Questo è il vero squilibrio da appianare, prima di considerare i deficit della contabilità monetaria, che rappresentano solo delle variabili secondarie.
Premettiamo una distinzione di fondo sulla forza lavoro su cui fondare l'analisi dell'economia fisica:
Forza lavoro produttiva. È quella che produce i beni fisici che sono necessari al sostentamento ed all'aumento della popolazione e al miglioramento continuo dei livelli di vita. Vi sono compresi coloro che lavorano nelle infrastrutture, a partire dall'energia e i trasporti, gli occupati nelle manifatture, nelle costruzioni, nell'industria estrattiva e nell'agricoltura. Tutti costoro producono i beni reali effettivamente diretti a migliorare qualità di vita e produttività della società, un miglioramento misurabile in termini fisici e non monetari.
Forza lavoro non-produttiva. In questa categoria rientrano i lavoratori che non partecipano direttamente alla creazione della ricchezza fisica. Questa categoria può essere suddivisa in due parti, quella utile e necessaria, e quella parassitaria. Nella prima rientrano tutti coloro che assistono i lavoratori produttivi, affinché effettuino il loro lavoro nel migliore dei modi (tutti gli addetti alla sanità ed all'insegnamento, scienziati, addetti ai servizi pubblici, i servizi utili, le amministrazioni necessarie, ecc.). Nella seconda rientra il mondo della speculazione e gli strati che questa rende improduttivi e sono quindi a carico dei produttori.
In ogni caso, tutta la forza lavoro non direttamente produttiva rappresenta un costo che dev'essere coperto con il profitto reale generato dall'economia produttiva. Il resto di questo profitto deve essere reinvestito nella scoperta di nuovi principi fisici e la loro applicazione (tecnologie) nei processi produttivi miranti ad aumentare il bene comune.
Da questo punto di vista si dovrebbe già comprendere come il concetto stesso di economia dei servizi, in cui le attività lavorative non sono concepite per contribuire alla capacità produttiva fisica dell'intera società, ma finiscono per assorbire un numero di addetti esorbitante rispetto a coloro che effettivamente producono i mezzi fisici per vivere, è un'assurdità completa, una ricetta sicura per arrivare al collasso economico.
E' vero che l'introduzione di nuove tecnologie in molti casi migliora i processi produttivi, e libera di conseguenza un numero degli addetti impiegati nella produzione immediata dei mezzi di esistenza. Ma questo potenziale lavorativo che si libera dovrebbe essere indirizzato ad affrontare le grandi sfide tecnologiche del futuro e non sprecata nei servizi inutili. Inoltre, il travaso dei lavoratori produttivi ai servizi che si sta verificando da decenni eccede in ogni caso il numero teoricamente derivante dall'incremento medio della produzione per addetto industriale.
La terziarizzazione dell'economia, che comporta la dequalificazione forzata degli addetti, rappresenta un disinvestimento che spinge in alto i costi fisici reali.


L'economista dell'EIR John Hoefle ha messo a punto insieme ai giovani del LYM uno studio sul rapporto tra forza lavoro produttiva e improduttiva negli ultimi cinquant'anni degli Stati Uniti.
Il primo dei due grafici prodotti dallo studio qui allegati, mostra il rapporto tra addetti dei servizi e addetti del settore manifatturiero. Quanti addetti ai servizi si contano per ciascun addetto alla produzione. Lo studio inizia dagli anni Quaranta perché si parte così da una fase in cui l'economia americana era effettivamente in forma, risanata dopo la grande depressione e nel pieno della ripresa rooseveltiana. Allora erano circa due gli addetti nei servizi per ciascun addetto alla produzione. Il lieve aumento dei servizi fino agli anni Settanta può essere generalmente considerato giustificabile. Successivamente però, come conseguenza delle decisioni oligarchiche di liquidare il sistema di Bretton Woods e di procedere verso la globalizzazione, si è verificata un'impennata dei servizi che rappresenta la svolta verso la cosiddetta economia post-industriale, una tendenza che si è accentuata in particolare negli anni novanta finendo per esplodere come conseguenza della globalizzazione nel nuovo millennio. Oggi si contano circa otto addetti nei servizi per ciascun addetto nella produzione.
Il secondo grafico riporta le cifre assolute, in milioni di unità, delle due categorie dell'occupazione a confronto, la prima curva sopra gli addetti ai servizi e sotto i manifatturieri. L'impennata dei servizi è impressionante, mentre l'occupazione reale, che salì rapidamente negli anni di Roosevelt (39-45), diminuisce lievemente negli Ottanta e Novanta per poi puntare verso un tracollo che oggi sta assumendo dimensioni drammatiche, in particolare con lo smantellamento generalizzato del settore dell'auto USA. Nei servizi ormai ci sono circa 100 milioni di lavoratori in più degli addetti alla produzione. Si tenga presente che questo rapporto è in realtà molto più accentuato se si tenesse conto della disoccupazione, solitamente ben camuffato nelle statistiche.
Si tratta di una situazione che non può essere sanata guardando ai boom di borsa, o agli indici di ripresa fondati sui parametri monetari, così come non può essere sanata dagli sgravi fiscali che possono far comodo solo agli speculatori. Al punto in cui siamo ora giunti, l'unica medicina per riequilibrare la composizione della forza lavoro in modo che non si arrivi allo smantellamento completo dell'economia mondiale, è quella dei grandi progetti infrastrutturali finanziati dal credito pubblico, la cui capacità di creare occupazione e ricchezza è già stata dimostrata all'epoca di Roosevelt.
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